“La Madonna in adorazione del bambino”, il capolavoro restituito ai piacentini 47 anni dopo il furto

E’ stato ritrovato e riconsegnato alla Diocesi di Piacenza e Bobbio il dipinto “La Madonna in adorazione del bambino”. L’opera fu rubata dal museo della Collegiata di Castell’Arquato nel lontano 1970. Dopo 47 anni i carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Venezia lo hanno ritrovato e riconsegnato ai piacentini. Ora il dipinto resterà esposto al Museo della Cattedrale, Kronos, dal 21 al 28 maggio prima di essere riportato a Castell’Arquato.

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La riconsegna ufficiale è avvenuta questo pomeriggio, sabato 20 maggio, a palazzo Vescovile. Erano presenti il vescovo monsignor Gianni Ambrosio, il comandante provinciale del carabinieri di Piacenza Corrado Scattaretico, la soprintendente ai Beni Culturali Giovanna Paolozzi Strozzi, don Giuseppe Rigolli, parroco della Collegiata di Santa Maria Assunta di Castell’Arquato, Manuel Ferrari, direttore dell’Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici della Diocesi di Piacenza e Bobbio, Susanna Pighi, storico dell’arte dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi e Christian Costantini, maggiore comandante del Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Venezia.

“E’ davvero motivo di grande gioia questo ritrovamento, credo che nessuno dei presenti oggi abbia mai avuto la possibilità di ammirare questo dipinto. Opere come queste, attraverso la bellezza, aiutano a guardare verso l’alto, elevarci e contemplare il cielo” commenta il vescovo Ambrosio.

L’importanza del dipinto e la sua storia, invece, sono stati illustrati da Susanna Pighi: “Questa tavola rappresenta un esempio di arte rinascimentale toscana piuttosto significativo, soprattutto in considerazione della rarità di testimonianze di quell’ambiente stilistico nel nostro territorio. Prima del malaugurato atto, la tempera su tavola apparteneva al Museo della Collegiata di Castell’Arquato, uno spazio espositivo fortemente desiderato dall’arciprete Don Enrico Cagnoni istituito nel 1932 grazie all’interessamento del suo successore, Don Emilio Fava. L’esposizione permanente ha sede nei locali attigui alla collegiata e vi si accede tramite un chiostro di atmosfera medioevale con magnifico loggiato. Il museo si compone di più sale che custodiscono testimonianze di storia della collegiata e delle chiese del territorio, tra cui dipinti, sculture, argenterie, arredi lignei, codici, tessuti liturgici, opere che coprono l’arco temporale tra XIII e XVIII secolo. La tavola era esposta sino al 1970 nella quinta sala, quella dei manufatti più preziosi. Rispetto al momento in cui fu rubato il dipinto presenta differenze evidenti dovute a un restauro intervenuto in anni da precisarsi. E’ alto 54 cm e largo 35 senza cornice. Al momento del furto era circondato da una cornice di gusto neogotico, sostituita con altra più idonea e d’epoca. La Madonna di tre quarti è presentata a mani giunte in adorazione del Bambino. Lo sfondo blu notte è qualificato da sottili raggi di luce. La tavola mantiene la fenditura orizzontale superiore che aveva sin dall’origine e anche da un raffronto ravvicinato sulla figura del Bambino sono evidenti le tracce delle porzioni dell’aureola un tempo crucisegnata con parti dipinte in rosso, asportate appunto nel corso del restauro intervenuto. La posizione identica della fenditura è la prova comunque più significativa che ha permesso di identificare il dipinto con quello rubato insieme all’esame lenticolare effettuato sul tracciato dei panneggi e delle decorazioni. Quando è stata rimossa la cornice di gusto gotico che incorniciava il dipinto prima del furto è stata modificata l’appendice superiore della tavola per inserirla nella attuale cornice”.

 

La questione inerente l’autore

“Da uno sguardo alla bibliografia precedente al furto si evince che la tavola era stata inserita tra quelle prescelte per l’Esposizione d’arte sacra del 1926, la più importante effettuata a Piacenza nella prima parte del Novecento. In tale occasione fu addirittura inclusa nel reparto delle opere di particolare rilievo detto anche il Sancta Sanctorum nel catalogo dell’esposizione. Sempre nel catalogo Vincenzo Pancotti la definiva deturpata da “inconsulti restauri”. Fu esposta senza attribuzione, ma l’anno seguente il Pancotti in un articolo su Castell’Arquato alla mostra piacentina d’arte sacra (Strenna Piacentina, 1927, p. 28 nota) ne riportava il riferimento a scuola di Filippo Lippi, precisando cito testualmente: “il gruppo arieggia la maniera del Botticelli….” e sentenziando che l’attribuzione a Lippi, gli appariva troppo gloriosa..”. Le informazioni fornite dal Pancotti, in realtà piuttosto appropriate come vedremo, venivano trascurate dieci anni dopo da Don Emilio Fava che pubblicava il dipinto come “graziosissima tavola cuspidata … da qualcuno attribuita a Sandro Botticelli, da altri a Filippino Lippi; certo ottimo lavoro di scuola toscana del XV secolo” prosegue Pighi. “Pancotti approfondiva l’aspetto stilistico confrontando la tavola con la tela del Lippi ora a Berlino un tempo in Palazzo Medici Riccardi. In effetti come vedete sia la posa del Bambino che l’atteggiamento della Vergine con il capo reclinato a mani giunte appaiono chiaramente desunti dalla composizione del Lippi, secondo uno schema proposto anche in altre sue opere note come la pala proveniente dal convento di San Vincenzo d’Annalena, databile al 1450 circa. Pancotti segnalava le affinità stilistiche con tavole rinascimentali pubblicate nel 1912 da Sergio Bernardini come quella che vediamo, la Madonna del melograno presso la Pinacoteca di Gubbio, attribuite a quell’epoca a un certo Pier Francesco Fiorentino. Anche uno studioso di primo piano come Bernard Berenson riconduceva i dipinti in linea con quello di Castell’Arquato proprio a questo pittore, Pier Francesco Fiorentino, ingenerando una sorta di equivoco. In realtà la nostra opera e quelle del gruppo affine, per lo più Madonne col Bambino accompagnate talvolta da figure secondarie, non hanno nulla a che vedere con l’attività di Pier Francesco, noto anche come Pier Francesco Prete perché fu ordinato sacerdote a 25 anni. Costui era figlio del pittore fiorentino Bartolomeo di Donato e, formatosi nella cerchia di Benozzo Gozzoli a San Giminiano nel corso degli anni sessanta del Quattrocento, eseguiva opere piuttosto lontane da quella oggi restituita .

Si tratta di un pittore attivo anche insieme al Ghirlandaio nella navata centrale del Duomo di San Giminiano e per la collegiata di Empoli, di cui esistono testimonianze nel Museo civico di Colle Val d’Elsa, e in S. Agostino (1494) a San Giminiano come questa. L’equivoco sull’autore fu sciolto da Mason Perkins che nel 1928 isolò dalle opere facenti capo a Pier Francesco il nucleo affine al dipinto di Castell’Arquato, riunendolo sotto il nome dello Pseudo Pier Francesco Fiorentino. L’appellativo fu poi adottato dallo stesso Bernard Berenson che accettò la correzione nello studio Pitture italiane del Rinascimento del 1932. Si veniva così a definire l’attività di un anonimo maestro i cui lavori erano riconducibili a una bottega della seconda metà del Quattrocento in Firenze dalla quale uscivano per lo più copie di tema sacro desunte soprattutto dal repertorio di Filippo Lippi e Pesellino”. “Nel 1958 Federico Zeri in considerazione del numero cospicuo di opere ipotizzò che l’attività dello Pseudo Pier Francesco Fiorentino fosse riferibile non a un singolo, ma a un gruppo di artisti cui diede nome di “imitatori di Lippi e Pesellino”. Zeri riteneva potesse trattarsi di un fiorente laboratorio specializzato nel riuso di schemi pittorici illustri e nell’assemblaggio di due o più cartoni derivati oltre che da composizioni dei due maestri citati anche da Domenico Veneziano, Leonardo Da Vinci e Antonello da Messina. Le tavole prodotte in tal modo erano desinate alla clientela privata, disponibile ad acquistare manufatti già pronti destinati a uso domestico o a edifici di culto minore. I prototipi venivano per lo più semplificati nelle linee e nel modellato così da originare immagini di immediato impatto visivo, di notevole suggestione grazie ad esempio al risalto dato ai profili e alla particolare luminosità degli incarnati o anche all’uso cospicuo delle parti in oro.

Tra i modelli maggiormente apprezzati dall’atelier in questione vi è senza dubbio la pala di Berlino che abbiamo visto prima, sostituita in Palazzo Medici Riccardi di Firenze proprio da una copia attualmente riferita allo Pseudo Pier Francesco Fiorentino. Un utile raffronto tra la copia di Palazzo Medici Riccardi e la tavola di Castell’Arquato evidenzia innegabili affinità. Un altro prototipo molto amato dallo Pseudo Pier Francesco Fiorentino è la pala eseguita dal Lippi per l’eremo di Camaldoli che riprende in controparte quanto già realizzato dall’artista nella pala per Palazzo Medici. Il soggetto e il modello del dipinto di Castell’Arquato vengono riproposti in numerose opere destinate alla devozione privata riferibili al nucleo dello Pseudo Pier Francesco come questa alla Galleria dell’Accademia di Firenze, molto simile alla nostra”. “In quest’altra degli Uffizi è stata aggiunta la figura di San Giovannino. L’artista ha inserito inoltre un dettaglio carico di significato simbolico il melograno che allude alla Risurrezione. I quadri di questo gruppo sono caratterizzati dall’impiego generoso ed arcaico della lamina d’oro e in alcune compaiono motivi floreali nello sfondo che assumono un importante ruolo iconografico. Nella tavola a tempera del Museo Puskin di Mosca vengono inseriti anche uno sfondo alberato, un fenicottero in secondo piano, un altro volatile in primo piano. Quest’altra del Museo Bardini di Firenze, datata intorno al 1480 circa, pur mantenendo lo stesso schema compositivo è caratterizzata dal fondale a rose con manifesto riferimento all’amore mariano. Si tratta per lo più di sfondi che appaiono derivare da composizioni di Domenico Veneziano”.

“Un altro dipinto già presso la collezione Thyssen di Lugano, poi passato sul mercato antiquario desume la parte con le figure angeliche da un’opera del Pesellino a Toledo, prototipo molto impiegato per questo gruppo di opere come un’altra opera del pittore ora conservata a Lione.

In conclusione si tratta di un tipo di produzione talmente cospicua da rasentare la “serialità” fatto per nulla anomalo nella Firenze quattrocentesca, atta a soddisfare le esigenze della fruizione devozionale e del collezionismo privato. Ancora non è stato sciolto l’enigma relativo all’autore o agli autori: una studiosa toscana, Ananmaria Bernacchioni, ha proposto sul finire del Novecento di associare queste opere a due collaboratori del Pesellino, ovvero Piero di Lorenzo del Pratese e Zanobi di Migliore, mentre Creighton Gilbert ha ipotizzato ha proposto l’identificazione del pittore con Riccardo di Benedetto noto anche come Riccardo della Nostra Donna. Chissà che proprio dal ritrovamento dell’opera di Castell’Arquato e dal suo studio non sia possibile acquisire ulteriori elementi in merito. Uno spoglio sistematico del ricco archivio della collegiata potrebbe rivelarsi utile sia per comprendere l’effettiva provenienza dell’opera, ad esempio se appartenga alla chiesa dall’origine, sia per gettare nuova luce sull’ambiente fiorentino in cui fu realizzata”.