Poetry Break – I figli secondo Gibran

Nella quarta puntata di Poetry Break, una riflessione sulla famiglia e in particolare sulla genitorialità. Nasce un figlio. Un nuovo essere umano che due persone decidono di fare entrare nel mondo. Un unione di Dna e di geni che diventa una nuova anima. Una parte del proprio sé che tramanda il patrimonio genetico e a volte anche un insieme di valori, di cultura, di desideri. Come comportarsi con questo nuovo entrato in questa meravigliosa avventura che è la vita? Una domanda ancestrale a cui rispondere è difficilissimo, forse impossibile.   

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Il ruolo genitoriale è sempre stato complesso,e forse  particolarmente in questo periodo storico, in cui i ruoli nella società non sembrano essere più gli stessi. In cui i genitori sono spesso spaesati: adulti ancora bambini, talvolta fratelli dei figli, qualche volta distratti, altre volte eccessivamente apprensivi e restii a lasciarli camminare nel mondo con le loro gambe.

C’è una poesia che trovo sia particolarmente utile è illuminante, per genitori e figli. L’ha scritta il grandissimo poeta Kahil Gibran, libanese di nascita e newyorkese d’adozione, vissuto a cavallo dell’ottocento e del novecento,  autore de “Il profeta” da cui è tratto anche questo scritto, autore di grande spessore e profondità, che in questi anni ha trovato nuova grande rispondenza di sentimenti ed emozioni e rinnovata popolarità in tutto il mondo. Gibran unisce mondi diversi, culture e religioni differenti, ma parla con un linguaggio universale che è quello delle emozioni e della spiritualità.

 

Figli ( Kahil Gibran, 1833-1931)

I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie della brama che la Vita ha di sé.
Essi non provengono da voi, ma per tramite vostro,
E benché stiano con voi non vi appartengono.

 

Potete dar loro il vostro amore ma non i vostri pensieri,
Perché essi hanno i propri pensieri.
Potete alloggiare i loro corpi ma non le loro anime,
Perché le loro anime abitano nella casa del domani, che voi non potete visitare, neppure in sogno.
Potete sforzarvi d’essere simili a loro, ma non cercate di renderli simili a voi.
Perché la vita non procede a ritroso e non perde tempo con il giorno già trascorso.
Voi siete gli archi dai quali i vostri figli sono lanciati come frecce viventi.
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito, e con la Sua forza vi tende affinché le Sue frecce vadano rapide e lontane.
Fatevi tendere con gioia dalla mano dell’Arciere;
Perché se Egli ama la freccia che vola, ama ugualmente l’arco che sta saldo.

 

I genitori sono l’arco e i figli la freccia. Una metafora straordinaria. Mai nessuno prima aveva cantato questo rapporto primordiale con questo straordinario spirito di libertà. La libertà che il creatore dona all’essere creato, il libero arbitrio, così come  è concesso da Dio all’uomo, così deve essere concesso dai genitori ai figli.

A questa grandissima lirica ho abbinato una canzone degli anni ottanta, “Avrai” di Claudio Baglioni, che il cantautore romano scrisse in occasione della nascita del suo primogenito, nel 1982. Sono i sogni di un padre per un bambino appena nato. Il sogno più grande per lui, tuttavia, è di avere la sua stessa “dolce speranza di non aver amato mai abbastanza”. L’insegnamento più grande, anche per questo celebre padre, è “dare” amore, non “fare” o esaudire desideri mai realizzati  Amare. Che c’è di più semplice e nello stesso tempo spaventosamente difficile?

La lettura dell’attrice Anna Rosa Zanelli è particolarmente intensa e carica di sentimento, in sintonia con il grande autore del Profeta, che dal secolo passato ci parla ancora con grande saggezza e vicinanza di sentimenti.

Alla prossima!