Impresa nell’impresa: Stretto di Magellano a remi, tra balene e correnti

Imprese nell’impresa. Una serie di imprese, giorno dopo giorno, che in altre circostanze, in contesti di quotidianità “occidentale” meriterebbero ognuna un racconto, ognuna una galleria di foto, video, post su Facebook e montagne di “like”. Questa serie di imprese quotidiane, più o meno dure da affrontare, è l’Esmeralda Expedition: l’odissea di un giovane uomo che, completamente da solo (solitudine vera, a tratti totale, e non solo “filmata” come in certe avventure televisive tanto popolari), sta attraversando da sud a nord senza mai utilizzare mezzi a motore uno dei continenti più affascinanti del pianeta: il Sudamerica. Francesco Magistrali, 36 anni, piacentino, ci pensava da anni e praticamente da quando ha l’età della ragione si stava preparando, più o meno consapevolmente, per la spedizione che ha preso il via lo scorso marzo e che ha conquistato, e sta conquistando, chiunque ne senta parlare. Esmeralda non a caso, perché è la spedizione più verde che si possa immaginare: l’impatto è praticamente zero (Francesco non inquina) e l’interconnessione con la strabiliante natura dei luoghi che sta attraversando è ai massimi livelli; un’interconnessione imprescindibile che rappresenta il bello ma anche il difficile di questo viaggio pazzesco e che se già in Patagonia è fortissima, è durante la traversata della foresta amazzonica che si manifesterà in tutta la sua potenza.

Radio Sound

Tante imprese nell’impresa, a partire dai primi trecento chilometri in bici nella Terra del Fuoco, da Ushuaia, la città più meridionale del mondo, ultimo baluardo di civiltà prima dell’Antartide, sino a Bahia Azul sullo Stretto di Magellano. Trecento chilometri di vento, neve, tornanti in salita e freddo: un autunno australe che assomiglia poco a quello boreale a cui siamo abituati nel sud dell’Europa. Trecento chilometri per prendere le misure con le distanze, le gambe, il fiato, la solitudine e la strana routine di una vita costantemente outdoor, con l’esigenza quotidiana di trovare acqua e un luogo dove accamparsi. Ed è molto meno facile di come sembra.

Da Ushiaia a Baia Azul, dunque, passando per Cerro Sombrero, per le scuole piene di bimbi argentini e cileni a bocca aperta nel sentir raccontare questa avventura direttamente da chi la sta vivendo. Un’avventura che va oltre la prestazione sportiva e umana dell’atleta Francesco Magistrali; è un’avventura che s’inserisce in un progetto più ampio sul quale hanno investito in tanti, imprenditori, professionisti, agenzie di comunicazione come Corsiva Srl di Piacenza, atenei come l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con il suo ExpoLab, e che ha come obiettivo un’impareggiabile raccolta di dati sulle varie culture e sulle varie abitudini alimentari dei popoli di questa parte di mondo; il tutto dimostrando che si può viaggiare, si può vivere, ci si può nutrire e, perché no, ci si può anche divertire senza necessariamente devastare la terra in cui viviamo.

A Bahia Azul inizia una delle tante imprese che compongono lo straordinario mosaico dell’Esmeralda Expedition che in questi giorni sta facendo registrare i primi duemila chilometri percorsi dei diecimila totali (Francesco il 13 maggio 2014 era a Facundo, cittadina rurale del Chubut, nel dipartimento Río Senguer, cuore della Patagonia argentina). A Bahia Azul inizia forse la prima impresa vera, tosta, il primo giro di boa, anche psicologico: la traversata del leggendario stretto di Magellano per lasciarsi alle spalle l’isola della Tierra del Fuego e per iniziare a risalire il continente. Pochi chilometri di acque strane, insidiose, apparentemente piatte ma in realtà piene di correnti fortissime che nascono dell’incontro dei due oceani più grandi del mondo: il Pacifico e l’Atlantico. Sono tiepide rispetto alla latitudine in cui ci troviamo e qui vengono a riprodursi e a ristorarsi balene, delfini, leoni di mare e pinguini. Ma siamo in autunno, tra poco inizia il freddo vero, tutto intorno ci sono iceberg e ghiaccio, non molto lontano c’è il mitico Capo Horn e poi l’Antardide; morale, c’è da stare attenti e non si può improvvisare.

E’ a questo punto del viaggio che incontro Francesco. Lo incontro dopo due giorni di saliscendi dagli aerei dall’Italia passando per il Brasile e facendo scalo in una Santiago del Cile che trovo nel caos più totale: mentre ero in aria un terremoto di magnitudo 8.2 ha scrollato la parte settentrionale del Paese e quando atterro quasi tutti voli verso nord sono cancellati, code chilometriche di passeggeri intasano i check-in, giornalisti ovunque a documentare il bailamme. Le scosse e i morti (pochissimi, a dire il vero, se si pensa ai disastri che un terremoto della stessa intensità avrebbe fatto in Europa) si sono registrati quasi duemila chilometri più a nord ma Santiago è la capitale e tutti i movimenti del Cile passano da lì. Il problema è l’aeroporto bloccato, non tanto il terremoto. Morale, riesco per il rotto della cuffia a imbarcarmi per Punta Arenas, verso sud, facendo scalo a Puerto Montt. Arrivo alle otto di sera, ora cilena, cinque ore indietro rispetto all’Italia, e trovo ad attendermi in aeroporto due amici che sino a quel momento erano solo un paio di indirizzi email: Omar dell’agenzia Caminos Extremos e Kiko, kayaker e guida di Punta Arenas. Nel giro di mezz’ora mi trovo motorizzato e con un’ottima dritta su dove andare a dormire: Hostal Hain, sempre a Punta Arenas, davvero piacevole, sembra di essere a casa.

Mi sveglio a due passi dal porto di questa cittadina affacciata sullo Stretto di Magellano con un sole tiepido che non mi aspettavo a illuminare gli scafi rossi delle rompighiaccio pronte a condurre scienziati, biologi e avventurieri verso l’Antardide. Raccolgo il mio materiale, lo carico sul mastodontico pickup Mitshubishi a nolo e parto per Punta Delgada, ultimo microscopico centro abitato che campa sul via vai di traghetti per la Terra del Fuoco: giusto qualche casa di legno che ospita chi lavora lì (come Iris, titolare del bar ristorante all’attracco delle navi: i migliori hot dog che io abbia mai mangiato), e i militari della Capitanìa de Puerto, Armada de Chile.

Appena fuori da Punta Arenas, la Patagonia australe appare così come uno se la immagina leggendo Bruce Chatwin e Louis Sepulveda: enorme, piatta, cieli perennemente “gravidi”, per dirla proprio con Chatwin, cieli che cambiano come in un video accelerato per via del vento dell’ovest che scende dalle Ande e spazza tutto quello che trova con una potenza che mi fa subito comprendere appieno lo sforzo di Francesco Magistrali. L’aria del Pacifico si alimenta tra le cime andine, che sono subito lì, attaccate all’oceano, e poi si scaraventa giù in questa terra senza ostacoli e corre all’impazzata pettinando steppe, piegando alberi e rendendo la vita davvero difficile a chi deve pedalare con un carrello attaccato alla bici e borsoni che fanno da vela.

Io però sono in auto e l’unica fatica che faccio è pigiare sull’acceleratore ascoltando Radio Patagonia Austral Plus che trasmette rock inglese e americano anni ’70. Una goduria. Conviene portarsi la tanica, mi aveva detto qualcuno. Esco dalla città, mi lascio alle spalle un enorme relitto arrugginito adagiato sulla spiaggia e subito capisco perché: non c’è più niente per duecento chilometri. Niente di niente, solo qualche operaio al lavoro sulla Statale 9 (che in Italia è la via Emilia e che qui invece si chiama “Ruta del Fin del Mundo”), una “estancia” abbandonata (San Gregorio) di fronte a un altro relitto spezzato a metà e qualche curva, massimo tre o quattro; curve che vengono segnalate come se fossero precipizi, tanto sono rare. E animali. Di animali ce ne sono più di quanti immaginassi, e tutti visibili dalla strada mentre si guida: mandrie di guanacos, che sono tipo lama, e famiglie intere di nandù, praticamente struzzi africani solo un po’ più piccoli; e poi fenicotteri, cavalli, pecore, capre e qualche armadillo.

Arrivato a Punta Delgada dopo un viaggio strepitoso e scopro che c’è un traghetto all’ora per la Tierra del Fuego ed è gratis per chi, come me, è a piedi. L’auto la lascio lì senza problemi, anche perché mi dicono che l’ultimo ladro s’è visto negli anni ’80, e mi imbarco per Bahia Azul, dall’altra parte del golfo, dove so che il giorno prima è arrivato Francesco. Le comunicazioni sono rare e c’è da essere precisi: lui è autonomo col satellitare ma io ho bisogno di una rete wifi e l’ultima disponibile era all’Hostal, poi buio comunicativo totale (sensazione quasi gradevole se non fosse per le esigenze logistiche contingenti).

Sul traghetto vengo assalito amichevolmente ma poderosamente dalle domande di un fotoamatore argentino che vuole sapere tutto su Canon e Nikon e quando sbarco mi sta ancora parlando. Insiste per farmi una foto sullo sfondo della Terra del Fuoco con il mio iPhone: accetto, lo ringrazio, e un secondo più tardi, appena mi riconsegna il telefonino chiedendomi di controllare se la foto è venuta bene, riconosco alle mie spalle il piumino rosso di Francesco; mi volto e lui è a mezzo metro da me. Rendez vous perfetto.

Ci si abbraccia, si ride dell’incontro surreale, dopodiché si percorrono quelle poche centinaia di metri che separano lo sbarco dei traghetti dalla sistemazione notturna trovata dal buon Magistrali, uomo dalle mille risorse: il Comune di Cerro Sombrero, da cui dipende il centro di Bahia Azul, dove ci troviamo, sta allestendo un piccolo alberghetto per viaggiatori a ridosso dell’ufficio turistico; è ancora in costruzione, non ci sono arredi né letti ma è riscaldato e c’è qualche materasso sul pavimento: davvero una manna dal cielo. Ci sistemiamo lì, con i guanacos fuori dalle finestre che brucano erba ocra e il cartellone Tierra del Fuego sopra le teste.

Lì nei pressi c’è un barettino con la pareti di legno che apre la sera e si affaccia sull’attracco dei traghetti; fanno ottimo pollo e hanno birra e patatine fritte. I clienti abituali sono pescatori accampati poco lontano: tutti uomini, naturalmente, e tutti sopra i sessant’anni. Tempo dieci minuti e siamo dei loro. Ci spiegano i segreti delle correnti, i rischi, i trucchi per attraversare lo stretto usando solo i remi. Perché è questo che Francesco deve fare: con Kiko, la guida di Punta Arenas e riferimento per i permessi da chiedere alla capitaneria di porto, salirà a bordo di un kayak doppio e, in linea con lo spirito della spedizione, “conquisterà” il continente pagaiando attraversando l’Estrecho de Magallanes.

Le condizioni meteo sono instabili, c’è vento, le correnti sono fortissime. Morale, l’autorizzazione si fa attendere e la traversata, prevista per il giorno dopo, salta. Nel frattempo ci ha raggiunti anche Marcelo; arriva da Rio Grande, in Argentina, ma all’alba, di fronte al no dei militari, deve rientrare. Giusto il tempo per farci assaggiare dell’ottimo “mate” e per passare con noi una serata di racconti e risate.

Il giorno successivo si ammazza l’attesa girando nella steppa, avvicinando animali, camminando su spiagge deserte e coperte da miliardi di cozze che per un attimo ci fanno venire l’acquolina, salvo poi scoprire che sono più tossiche del cianuro: colpa della marea rocha, ci spiegano i pescatori. In tarda serata arriva l’ok di Alejandro Alarcon Higuera, sargento primero e capitan de puerto di Punta Delgada. C’è da andare a letto presto perché la sveglia è alle tre.

Kiko è il primo a uscire dal sacco a pelo. Sorride sempre, spara battute a raffica e stempera quel minimo di tensione che invece si legge sul volto di Francesco: c’è buio pesto là fuori e sta per infilarsi in una canoa grossa più o meno come la pinna di una delle tante balene che di lì a poco gli nuoteranno sotto le natiche. L’alba sembra un quadro impressionista: pennellate rosse e oro segnano l’orizzonte dividendo il nero del cielo dal nero tremulo dell’acqua. La scena ha un che di apocalittico, complici anche i fari della Toucan, la nave militare che farà da appoggio alla traversata e sarà lì in caso di emergenza. Io sarò a bordo.

“Vamos”, dice Kiko.  Sono le cinque del mattino. Un colpo di bacino e il kayak si stacca dall’isola più meridionale del pianeta diretto verso il continente. Qualche istante per sincronizzare le pagaiate e poco dopo dalla costa si vedono solo i due lumini delle lampade frontali di Kiko e Francesco come sospesi nel nulla.

La Toucan viaggia coi motori al minimo, quasi non si sentono. Il personale mi offre un’ottima colazione a base di caffè americano e paste appena sfornate dal cuoco di bordo. E’ quello che ci voleva. Salgo sul ponte, monto il 200 millimetri col moltiplicatore di focale e inquadro i due kayakers che remano in sincrono perfetto. C’è silenzio quasi assoluto; solo il ronzio cupo dei motori, lo sciabordìo dello scafo sull’acqua calma, qualche cormorano che inizia a cercare cibo e, di tanto in tanto, una “tonina” che salta. Sono piccole balene, più simili ai delfini; hanno i colori delle orche, bianco e nero, e sono innocue, giocano. Certo che a vedersele lì a due passi, tra noi e i due rematori, fa una certa impressione. Loro però, i rematori, sembrano incuranti e, per l’appunto, remano concentrati. A un certo punto le pagaie si bloccano: Kiko tira fuori qualcosa dal tascone sul petto e beve, poi allunga la mano a Francesco. Un attimo dopo sono già ripartiti, anche perché se mollano la presa la corrente li porta via e addio rotta.

Sul ponte con me ci sono due marinai giovani con le divise blu impeccabili e i berretti candidi. Sono discreti, gentili. Quando si accorgono che mi sporgo troppo per tentare di fotografare qualche balena mi richiamano all’ordine ma un attimo dopo mi stanno già chiedendo di Vidal, il cileno della Juve.

Francesco e Kiko sono splendidi nella luce dell’alba ormai giallo intenso. Il cielo è pieno di gabbiani e cormorani che si sono appena staccati dalla spiaggia continentale rompendo il silenzio con lo sbattere delle ali sull’acqua. Sono passati cinquanta minuti e il faro di Punta Delgada è lì. L’ultimo sforzo però è il più duro: la corrente in quel punto è una specie di fiume nel mare e sposta il kayak di molti metri tra una pagaiata e l’altra, e sulla spiaggia i militari in attesa si spostano correndo sui ciotoli. Il cronometro sullo schermo del telefonino di uno dei marinai a bordo della Toucan si ferma a 54 minuti e 32 secondi; è il momento esatto in cui si sente lo scafo del kayak che raspa sulla spiaggia ghiaiosa. Francesco Magistrali e Kiko Quijada sono sul continente.  

Le ore successive sono leggere. Un’euforia composta ha preso un po’ tutti. Il sergente Alejandro Alarcon Higuera invita gli atleti nei locali della Capitaneria, offre caffè e pasticcini, poi consegna a entrambi un diploma con tutti i dati della traversata. Foto di gruppo e via, si torna a pedalare verso nord.