Pubblichiamo intergralmente il discorso dell’assessore comunale Francesco Timpano durante le celebrazioni in memoria dei caduti.
Nel giorno in cui il ricordo e la preghiera di ciascuno sono rivolti ai propri cari defunti, a unirci con commossa partecipazione è la condivisione di una memoria collettiva scritta nella storia del nostro Paese. E’ un mosaico che ha il volto pulito dei giovani chiamati al fronte nella Grande Guerra, l’espressione fiera e dignitosa dei partigiani che hanno lottato per la libertà e la democrazia, lo sguardo carico di aspettative con cui sono partiti, per una missione all’estero, ragazzi come il caporal maggiore degli Alpini Tiziano Chierotti, ucciso pochi giorni fa in Afghanistan, dove prima di lui altri cinquantuno nostri connazionali hanno perso la vita.
Celebrare, oggi, l’omaggio ai Caduti, significa ripercorrere le tappe più dolorose del nostro cammino di popolo civile e consapevole dell’imprescindibile valore della pace. Vuol dire fare nostro il sentimento di tante famiglie che non hanno più abbracciato i propri figli, chiederci insieme a loro quali sogni, quali progetti avrebbero potuto realizzare. E domandarci ogni giorno, con senso di responsabilità e con onestà, se il nostro comportamento e le nostre scelte di cittadini – a cominciare da chi è impegnato in politica e nelle istituzioni – rendono onore al loro sacrificio.
Non può infatti esaurirsi nella solennità di una cerimonia, per quanto sentita e animata da una presenza affettuosa, il doveroso tributo che spetta alle generazioni il cui coraggio, la cui etica dell’appartenenza a una comunità sono testimonianze di un’Italia nella quale vorremmo poter continuare a credere. Di quella stessa indomita tenacia, di quell’energia costruttiva e travolgente, capace di sfidare la violenza brutale dell’ideologia nazifascista, fu interprete ciascuno dei 17 partigiani i cui nomi sono incisi nel marmo della lapide di fronte alla quale ci ritroviamo. Tra loro don Giuseppe Borea, 35 anni all’epoca, tra i primi sacerdoti a sostenere il movimento della Liberazione; il carabiniere volontario Alberto Araldi, 33 anni quando venne colpito dai proiettili della fucilazione; la 42enne Luigia Repetti Stevani, simbolo del contributo prezioso e insostituibile che le donne diedero alla Resistenza anche sul nostro territorio.
Voglio rimarcare la loro età, nel pieno delle loro esistenze, perché citando queste tre storie proviamo a rendere giustizia anche a tutti coloro di cui non conosciamo l’identità né i dati anagrafici, ma il cui percorso si è interrotto troppo presto, soffocato dal bellicismo e dall’asprezza di un conflitto armato che ha annichilito le coscienze e la dignità umana. Come ha scritto Italo Calvino, “c’era la guerra… e ormai sapevo che avrebbe deciso delle nostre vite. Della mia vita; e non sapevo come”. Non dimentichiamolo: ogni volta che vengono calpestati i princìpi della Costituzione, che viene tradita la fiducia della collettività, che non si riconoscono i diritti fondamentali della persona, si manca di rispetto a coloro che sono morti per costruire il nostro futuro, spendendosi con generosità estrema, con dedizione e assoluta coerenza in nome di un ideale più grande.
Sbaglieremmo, tuttavia, se pensassimo che questi altissimi esempi sono – nell’apparente mediocrità del nostro tempo – irraggiungibili e lontani. Oggi più che mai, è necessario recuperare la straordinaria capacità di farsi carico del prossimo e di trascendere gli individualismi che rese possibile, in condizioni di indicibile difficoltà, disagio e miseria, la nascita del movimento di Liberazione. Le conseguenze della crisi economica – sempre più tangibili nel determinare nuove povertà e l’emergere di solitudini che si fanno, spesso, peso insostenibile – ci chiamano ad essere partecipi dei problemi altrui, a contrastare ogni forma di indifferenza, a difendere i valori fondanti della nostra Repubblica dalla minaccia concreta di meccanismi che sembrano fagocitare, indiscriminatamente, le conquiste per le quali i nostri padri, i nostri nonni hanno dato se stessi.
Penso in particolare al dramma del lavoro, alla mancanza di prospettive generata dalla disoccupazione, all’inaccettabile stillicidio degli incidenti dovuti alla mancata osservanza delle regole (come se sulla sicurezza si potesse risparmiare), allo sconforto che può trascinare in un baratro chi perde il proprio impiego, chi vede sgretolarsi in un fallimento anni di dignitosa fatica. E’, questa, una delle guerre forse più gravi nella società contemporanea, di fronte alla quale il ricordo di chi non c’è più, di chi è caduto con la consapevolezza di lottare per il bene comune si erge come un monito, come l’emblema di una solidarietà nella quale dobbiamo cercare la risposta più efficace, più incisiva alla crisi.
Grazie.