la prima testimonianza di viaggio dei piacentini a Kamlalaf in Burundi

La libertà nel suono di un tamburoScritto dai ragazzi di Kamlalaf in BurundiAeroporti : tutti schifosamente uguali! Eppure oggi rimango colpito dalla multiculturalità che non mi aspettavo di trovare a Malpensa.Sarà "l’effetto Africa" anticipato che da ieri ho cominciato a percepire, ma oggi non posso fare a meno di notare la lunga veste in stile africano del mio vicino di poltrona al check-in, gli occhi allungati e belli dell’imponente black woman che mi siede di fronte, i bimbi neri coi piccoli dreadlock, impossibili da replicare per qualsiasi parrucchiere italiano.D’altronde penso sia normale che al momento di salire su un aereo diretto a Bujumbura l’attenzione si focalizzi automaticamente su tutto quello che puo’ anticipare e dare un assaggio della meta. Però tutto questo rende l’idea di quanto l’ottica, il filtro con cui si guarda plasmi la visione della realtà. Un africano probabilmente qui ci vedrà come solo bianchi, o chissà che…!!Atterriamo alle 8,50 con un volo Kenia Airlines nel micro–aeroporto di Bujumbura. La pista è una striscia d’asfalto in mezzo alla terra bruciata, al niente!I passeggeri africani scompaiono in fretta e rimaniamo soli con gli agenti aereoportuali e altri non meglio identificati pseudo-militari dai visi cupi. Ovviamente è andata persa la valigia più importante. La ricerca viene rimandata al pomeriggio, forse non tutto il male viene per nuocere: all’uscita (in ritardo) nessun bagaglio viene aperto e tutto può essere caricato e portato al Centre. Miracolosamente la valigia ci verrà riconsegnata nel pomeriggio, con grande correttezza. Due ragazzi del Centre Jeunes Kamenge ci fan salire su un pick-up che ci catapulta velocemente nella brulicante periferia della capitale. Le bici sono cariche di ogni ben di Dio, la strada è vissuta fino all’ultimo centimetro disponibile, i clacson suonano e gli animali condividono la quotidianità con le persone. Si ha la percezione di una popolazione molto omogenea dal punto di vista esteriore: fisico, somatismi, stature, vestiti, tutto dà l’idea di omogeneità che acuisce ancor di più lo iato che si crea con l’uomo bianco.Difficile dimenticarsi comunque il profondo solco che una storia ingiusta ha creato tra noi occidentali e le genti colonizzate e, se anche fosse, ti torna in mente presto, diciamo subito, in un posto come questo.Gli sguardi penetrano la jeep e la trapassano, con te dentro e senti qualcosa di glaciale e corrosivo quando al tuo passaggio qualcuno esclama "muzungo!" (bianco), senza neanche un’ombra di sorriso che possa dare adito a fraintendimenti.In un modo o nell’altro arriviamo infine al Centre, dove padre Claudio Marano ci illustra con grande serietà e umiltà sia l’organizzazione degli spazi, sia le attività e soprattutto la finalità di questo progetto davvero ben gestito.La prima giornata mi è servita per rompere il ghiaccio con i ragazzi che frequentano il Centre e… con la lingua francese; sono tutti molto disponibili e la lingua è per loro un divertimento che sanno sfruttare al meglio, diventa il mezzo e il fine della discussione e aiuta quindi a creare rapporti con l’estraneo. Anche il gioco qui assume una valenza centrale (calcio-balilla, ping pong, basket, ecc…) e diventa lo strumento principe ai fini della riconciliazione e del rispetto.E’ difficile esprimere a parole tutte le emozioni che già dall’arrivo mi hanno punto ovunque (altro che zanzare!!!). Sono i sorrisi e il calore dei giovani Kamenghiani, che mi fanno dimenticare tutta l’ingiustizia e la diversità dei nostri vissuti.Non esiste il tempo. Esiste soltanto la voglia di condividere se stessi e di comunicare pur non conoscendo le lingue altrui. Ogni attimo è ricco di vita, vita pura, dove la realtà siamo noi: uomini e donne, viaggiatori fortunati che vediamo convergere il nostro presente a Kamenge.Una messa, un canto.La possibilità di rievocare i defunti che io non ho.I defunti non relegati su un muro freddo senza tempo come ferite nella pietra, ma ricordati ad alta voce.I loro nomi che rieccheggiano nell’aria densa di emozioni e risuonano davanti e dietro me, come un eco portato dal vento e cullato fino alla fine, quella fine che non esiste.Una mano nell’altra, un sorriso di piacere nella fede reciproca, un aiuto nella lingua mancata.Sguardi, tanti sguardi e, nella moltitudine, riconoscere noi, i diversi, ancora più diversi di quello che normalmente possiamo essere. Il verde fa eco ai tamburi.Tamburi tra le mani di giovani speranze e per un attimo scompare la differenza.Bacchette di legno grezzo per i tamburi che liberano, con il suono, l’imbarazzo, i problemi e i doveri.Ecco dov’è la libertà, eccola là, si vede benissimo: sta nel suono di un tamburo percosso dalle mani di un nero e di un bianco: insieme. COLPA DI NESSUNOOmbre di carriole di pacespaccano l’afa mattutina,canti di giovani credentigiocano con spari di fucili,l’amore e la guerra non sembranoche stupidi giochi da bambini,la memoria sta tutta in una virgolatra un salmo e una predica in francese,le case farmaceutiche sorridonodentro menti sedate dalla storia.Amen, mea culpa,o era tutto stabilito

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