“Ora che l’Europa ha firmato con il Canada il trattato di libero scambio Ceta, aspettiamo di vedere i “brillanti” risultati che l’intesa porterà all’agroalimentare italiano. Siamo sicuri che a goderne sarà solo la grande industria, mentre le piccole aziende resteranno al palo e sulle tavole dei consumatori arriveranno prodotti di dubbia qualità”. E’ netta la posizione del Consorzio La Carne che Piace.
Il presidente Gianpaolo Maloberti si schiera con gli scettici «che sono tanti, a partire da Slow Food». Maloberti ha ricordato come questo «stupefacente trattato» non sarà certo benefico per tanti prodotti italiani. E per farlo cita le parole di Carlo Petrini rilasciate pochi giorni fa: «Per essere ancora più concreti, possiamo fare un esempio: in Europa abbia-mo 1300 prodotti alimentari a indicazione geografica, 2800 vini e 330 distillati. Di questi, il CETA ne tutelerebbe solamente 173. Questo significa che alcune denominazioni di origine di prodotti legati al territorio e con una tecnica produttiva tradizionale potrebbero essere tranquillamente imitati oltreoceano, senza essere passibili di alcuna sanzione».
Il Comprehensive Economic and Trade Agreement, l’accordo globale per l’economia e il commercio, apre il commercio tra le due parti che insieme costituiscono un mercato di 536 milioni di consumatori (gli scambi valgono circa 60 miliardi l’anno). Il Trattato abolirà il 99% dei dazi. Il problema, però, considerato che una grande fetta del business riguarda l’agroalimentare, è se verranno garantiti – così com’è indicato nel Trattato – i controlli e se nei nostri piatti non arriveranno prodotti contrari ai nostri standard di sicurezza, che non sarà alterata la tradizione alimentare e che – anche questo è fissato nell’accordo – saranno rispettati i prodotti a denominazione. Il Trattato stabilisce, infatti, che saranno tutelati i marchi di indicazione geografica per i prodotti alimentari.
Maloberti, anche in questo caso, si schiera con le associazioni di agricoltori che hanno espresso forti dubbi sulla reale tutela dei prodotti tipici italiani. Evocazioni nel nome, grafiche che richiamano l’Italia (come l’uso della bandiera) e gli stessi nomi delle nostre specialità potrebbero non essere garantite. «Il trattato – continua il presidente del Con-sorzio – consente la produzione di prosciutti di Parma o Modena, a patto che ci si scriva Made in Canada. E lo stesso vale per i nostri formaggi. Anzi si potrà continuare a usare Parmesan, sempre con l’accortezza di mettere in etichetta Made in Canada. Ma ci si rende conto di che cosa significhi tutto questo? Ambiguità e poca chiarezza per i con-sumatori. I disciplinari rigidi con cui produciamo prodotti Dop e Igp cadranno nel dimenticatoio».
Se è vero che restano fermi gli standard ambientali e di sicurezza alimentare, continua il Consorzio, occorrerà vigilare affinché gli stessi siano rispettati. I cibi canadesi distribuiti nel mercato Ue, afferma il trattato, dovranno rispettare i vincoli comunitari su ogm e ormoni della crescita. «L’agricoltura italiana – dice Maloberti – è vessata da tasse, leggi e vincoli, sia nazionali sia europei, senza pari. Non vorremmo che i produttori e i trasformatori italiani, nel nome del “libero e vantaggioso mercato” venissero invece penalizzati sempre più. Già nella Ue ci sono disparità enormi, ad esempio, fra il trattamento riserva-to agli allevatori italiani e a quelli di altri Paesi, soprattutto dell’Est. Questo incide sul reddito di chi alleva (carne, latte, suini), ma a nessuno sembra importare. Perché non si ap-plicano in tutti gli Stati Ue i controlli certosini che subiscono gli allevatori italiani?».