“Credo che sia un segno di speranza dedicato anche a loro, a quei bambini costretti a crescere troppo in fretta, l’idea che in futuro si possano restituire alla vita e alla condivisione della comunità gli spazi oggi abbandonati delle aree militari dismesse, di cui la Pertite è certamente simbolo. Perché abbiamo il dovere – e la responsabilità – di valorizzare i luoghi custodi di memoria, se davvero vogliamo che le nuove generazioni non dimentichino ma possano costruire, conoscendo ciò che è stato, un domani diverso”. Con queste parole l’assessore ai lavori pubblici Paolo Garetti ha concluso il discorso in occasione del 77esimo anniversario della tragedia della Pertite. Un riferimento al parco della Pertite e alle battaglie che negli ultimi anni si sono consumate per ottenere un’area riqualificata.
Il discorso di Paolo Garetti
Con sincera commozione, e profondo senso di vicinanza a tutti coloro che furono toccati da quella immane tragedia, tributiamo l’omaggio della comunità piacentina alle vittime della devastante esplosione che l’8 agosto del 1940 sventrò lo stabilimento della Pertite. Una pagina di storia che ha segnato duramente la nostra città nel ricordo, mai sopito, delle 47 persone che persero la vita quel giorno, tra centinaia di feriti che rischiarono di non riabbracciare più i propri cari.
L’orologio batteva le 14.42, quando l’attività della fabbrica di caricamento proiettili – che all’epoca impiegava un migliaio di lavoratori – si arrestò brutalmente, annichilita dal fragore dello scoppio cui seguì, pochi istanti dopo, un secondo boato a squarciare il silenzio dei quartieri circostanti. Nelle case di Sant’Antonio e dell’Infrangibile i vetri andarono in frantumi, mentre una coltre densa si levava dalle macerie e la polvere si depositava sulle strade, sopra i tetti, nei cortili delle abitazioni.
Sono trascorsi 77 anni, da quel pomeriggio. Forse non abbiamo respirato l’odore acre del fumo, né abbiamo sentito il fragore delle sirene nella corsa disperata verso l’ospedale. Forse non abbiamo pianto il mancato ritorno a casa di un padre, di una madre, di un figlio o di una sorella. Eppure siamo qui, oggi, partecipi di quello stesso sgomento, ancora una volta attoniti nell’ascoltare o rileggere i racconti dei testimoni. Consapevoli di un dolore che ci appartiene, ci accomuna, al quale non potremo mai dirci estranei.
E’ il sentimento di cordoglio che ci unisce, idealmente, anche ai familiari dei 13 operai che nel settembre del 1928 restarono uccisi da un’altra deflagrazione – tre furono i feriti – nello stabilimento di via Emilia Pavese, triste presagio di quanto, dodici anni più tardi, si sarebbe ripetuto in circostanze che le cronache del tempo e le successive ricostruzioni non riuscirono mai del tutto a chiarire, sospese tra l’ipotesi di un drammatico incidente o di un vile attentato.
L’8 agosto del 1940, in un’Italia alla vigilia dell’entrata in guerra, fioriva la fervida attività dell’industria bellica e l’economia del nostro territorio traeva impulso dagli insediamenti militari che ne hanno storicamente caratterizzato l’identità, dando occupazione – nell’Arsenale e nelle sedi distaccate – a tremila persone. Oggi rendiamo onore ai loro colleghi caduti mentre tra quei capannoni maneggiavano polvere da sparo e materiale esplosivo: prime vittime civili di un conflitto che avrebbe portato sofferenza e distruzione in città e nelle nostre vallate, caduti sul lavoro “come in trincea”. Così recita la lapide che ne elenca i nomi, al cospetto della quale ci ritroviamo come ad ascoltare un monito di pace.
Lo facciamo nella ricorrenza in cui si celebra, memori della tragedia di cui fu teatro 61 anni fa la miniera belga di Marcinelle, il sacrificio del lavoro italiano nel mondo. E in quell’intrecciarsi di destini prematuramente strappati ai propri affetti, nella dignità di quella fatica quotidiana che sfidava la mancanza di tutele e di regole per la sicurezza, riscopriamo purtroppo un insegnamento attuale, che ci spinge a riflettere sulle statistiche di cui l’Anmil, presente come sempre al nostro fianco in quest’occasione, si fa portavoce denunciandone l’enormità inaccettabile in un Paese civile.
Oggi come allora: quanto coraggio, quanta onesta umanità spinse numerosi dipendenti della Pertite a ritornare in fabbrica quanto prima, in alcuni casi accettando di affrontare lunghi trasferimenti per non perdere il proprio impiego, pur nell’incertezza delle condizioni in cui avrebbero dovuto operare. Con rispetto ne ripercorriamo il cammino, rivolgendo un pensiero carico d’affetto a quanti, nei detriti e nell’ossatura nuda e violata dello stabilimento, videro sepolti in pochi attimi i propri sogni. Tra loro i 39 ragazzi che, non ancora compiuti i 15 anni, da quel giorno furono orfani.
Credo che sia un segno di speranza dedicato anche a loro, a quei bambini costretti a crescere troppo in fretta, l’idea che in futuro si possano restituire alla vita e alla condivisione della comunità gli spazi oggi abbandonati delle aree militari dismesse, di cui la Pertite è certamente simbolo. Perché abbiamo il dovere – e la responsabilità – di valorizzare i luoghi custodi di memoria, se davvero vogliamo che le nuove generazioni non dimentichino ma possano costruire, conoscendo ciò che è stato, un domani diverso.