Rabuffi: “Festa del lavoro? Un pensiero ad Abd Elsalam, ucciso da un camionista che ha forzato un picchetto”

“La Festa del lavoro o Festa dei lavoratori viene celebrata il primo maggio di ogni anno in molti Paesi del mondo per ricordare l’impegno del movimento sindacale e i traguardi raggiunti dai lavoratori in campo economico e sociale. Festa del Lavoro? Possiamo parlane, più o meno, del suo opposto: festa del non lavoro! E dunque, se così è, si può ancora parlare di festa? E si può scendere nelle strade, invadere le piazze, agitare le bandiere, e cantare le canzoni del “Movimento”, e infine, i pranzi fuori porta e le libagioni di rito, ascoltare i concerti che sembrano ormai diventati il cuore dei nostri primi maggio? Si può, insomma, “festeggiare”? Oggi, questa ricorrenza, come non mai, cade in un momento di feroce attacco ai diritti. Soprattutto nella nostra città dove è morto un uomo, un lavoratore, un marito, un padre. Ucciso. Travolto da un tir che cercava di forzare il picchetto dei dipendenti in sciopero davanti alla sede piacentina del Corriere Espresso Gls. Un operaio a Piacenza, egiziano, di 53 anni, Abd Elsalam Ahmed Eldanf, ha lasciato moglie e cinque figli soltanto perché ha osato chiedere il rispetto degli accordi sottoscritti in precedenza sulle assunzioni dei precari a tempo determinato”. E’ il commento di Luigi Rabuffi, candidato sindaco della lista Piacenza in Comune.

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“Chi si domanda come si possa ancora oggi morire nei diversi luoghi di lavoro, si starà certamente chiedendo come sia possibile morire per uno sciopero”. Partendo da questo presupposto Rabuffi avanza alcune considerazioni.

«Il 15 settembre scorso veniva ucciso da un camionista italiano Abd Elsalam Ahmed Eldanf, facchino egiziano che stava partecipando a un picchetto di protesta in un’azienda della logistica. Scesero in piazza in tutta Italia, a Piacenza, giustamente, centinaia di lavoratori. Non possiamo dimenticare quanto accaduto, morire mentre cercava di difendere i diritti di altri lavoratori. Continueremo le sue battaglie, anche per dire basta alla repressione e alla criminalizzazione del dissenso».

Ecco, gli scioperi. Ricordate quegli autunni caldi della fine degli anni Sessanta, che alcuni di voi hanno direttamente vissuto e molti di noi hanno soltanto studiato? Ricordate quelle manifestazioni oceaniche, gli scioperi per conquistare diritti? Ricordate quelle masse di lavoratori guidati da sindacati forti e dai partiti storici della sinistra? Una passione politica e civile che portò all’approvazione dello Statuto dei Lavoratori del 1970 e aprì le porte al decennio più buio e partecipato di sempre. Oggi, tutte queste conquiste sembrano assai lontane, non solo nel tempo.

In meno di cinquant’anni si è assistito ad un lento declino della coscienza collettiva, a favore di una società individualista ed orientata al perseguimento del successo personale a tutti i costi. Nella politica, nell’imprenditoria, persino nella vita sociale.

Oggi, navighiamo nelle acque alte dei mari dell’incertezza. E specialmente i più giovani faticano a galleggiare..
Siamo il Paese diviso esattamente a metà, dove al nord se lavori vieni pagato, mentre al sud se lavori vieni pagato quando vuole il datore di lavoro, forse.

Dunque, la morte vera, cruenta e feroce, di una pressa meccanica che si inceppa e ti schiaccia, oppure di un tir che ti travolge mentre chiedi rispetto, dignità e diritti. E una morte inesorabilmente lenta dell’anima. Che ti opprime e deprime a tal punto che ti rassegni. Che ti fa perdere la speranza.