Come ha inciso la congiura contro i Farnese del 1547 sulla storia di Piacenza? E’ la domanda a cui hanno cercato di dare una risposta i relatori della tavola rotonda che si è tenuta nel refettorio del Convento di S. Maria di Campagna, penultimo appuntamento delle manifestazioni collaterali alla Salita al Pordenone, riaperta dalla Banca di Piacenza in occasione delle festività. Il dibattito è stato preceduto dalla visione del filmato “Piacenza 1547. Una congiura contro lo stato nuovo”, realizzato da “Storia in rete srl” per conto dell’Istituto di credito di via Mazzini.
Domenico Ferrari Cesena ha distinto le interpretazioni del «fattaccio» in positive e negative. Nel primo caso, tre le considerazioni fatte dal relatore: l’assassinio di Pier Luigi fu una forma di protesta contro il potentato straniero (la Chiesa); il figlio di Paolo III fu eliminato perché considerato un tiranno, ma lo era veramente? Alcuni storici hanno sostenuto che il popolo lo rimpianse. Sul fronte delle negatività, il prof. Ferrari Cesena ha considerato il fallimento della congiura, che non è riuscita a eliminare i Farnese dal nostro territorio; e le conseguenze per la nostra città e i piacentini: «La congiura fece due vittime – ha sostenuto l’oratore -: lo stesso Pier Luigi e Piacenza, che ha sofferto enormemente la perdita del rango di capitale. Da allora ci portiamo dietro un complesso d’inferiorità rispetto a Parma».
Francesco Mastrantonio si è detto d’accordo con le conclusioni del prof. Ferrari Cesena rispetto alla sudditanza con Parma e al declino di Piacenza («iniziato da allora») e ha espresso un dubbio: «Come mai non si è riusciti né a fermare, prima, né a catturare, dopo, i congiurati visto che c’era la possibilità di entrare nel Palazzo?».
Di diversa opinione Corrado Sforza Fogliani. «Per giudicare il fatto della congiura – ha spiegato – non si può non partire da un dato fondamentale: Paolo III aveva dato al figlio Pier Luigi i territori di Piacenza e Parma in feudo in cambio di 9.000 ducati all’anno. Il Ducato non era quindi – come siamo abituati a pensare – uno stato sovrano, ma un feudo pontificio». L’avv. Sforza ha evidenziato che Pier Luigi tentò di cambiare il titolo di possesso da usufruttuario a proprietario, provocando quindi l’inevitabile contrapposizione dei feudatari imperiali (di rango superiore, tra l’altro) che erano usufruttuari a loro volta. «Non fu tanto una reazione allo stato nuovo – ha proseguito il relatore – ma allo stato in sé, perché il medioevo era caratterizzato dal pluralismo degli ordinamenti giuridici. Quella dei feudatari era dunque una difesa del pluralismo giuridico e sociale (oggi, diremmo delle autonomie locali) a cui Pier Luigi voleva sostituire uno stato che riconduceva tutto a se stesso». L’avv. Sforza si è detto non d’accordo con la valutazione che Pier Luigi Farnese fosse benvoluto dal popolo: «Gli atti del processo contro i congiurati promosso da Paolo III e i cui documenti sono stati pubblicati dalla Banca di Piacenza una decina di anni fa, ci dicono il contrario. E’ stato eliminato chi voleva la plenitudo potestatis ed è pacifico che i congiurati siano stati aiutati: Alessandro da Terni (maestro di campo del ducato, ndr) aveva a disposizione mille uomini, ma non intervenne».
«Credo – ha concluso l’avv. Sforza Fogliani – che la disgrazia sia stata il fallimento politico della congiura. Il ducato è proseguito, ma la questione della capitale era importante fino a un certo punto e a favore di Parma e Napoli. Se fosse rimasto l’ordinamento precedente, non avremmo subito le spoliazioni da parte dei Borbone. Che oggi si sia in posizione diversa rispetto al 1500 non dipende dai fatti di allora, ma da quanto accaduto nel ‘900. Nel 1950 eravamo la quinta provincia per prodotto interno lordo, oggi siamo la trentesima. La nostra posizione di supremazia rispetto a Parma ce la siamo giocata con le scelte politiche fatte dalla nostra classe dirigente nella seconda metà del secolo scorso. Non ci resta che imparare dai feudatari di allora, che lottavano sempre tra di loro ma sapevano unirsi in presenza di una minaccia esterna. Oggi siamo solo capaci di premiarci l’un l’altro mentre la città arretra. Recuperiamo un po’ d’orgoglio e non accusiamo di provincialismo chi difende, per davvero, la piacentinità».
Anche a parere Marcello Spigaroli il duca Pier Luigi non poteva essere amato, «per il carattere e per tante altre ragioni già espresse. Ma anche per la violenza alla città fatta con la tagliata (un’area fuori le mura dove non si poteva costruire, ndr). Diverso era il figlio Ottavio. La storia non si può fare con i se, ma mi chiedo cosa sarebbe successo se all’interno del Sacro Collegio avesse prevalso la linea di conferire il titolo di duca a Ottavio invece che a Pier Luigi».
Cesare Zilocchi ha posto l’accento sul salto di qualità fatto dalla nostra economia nel periodo medievale, criticando la «gran confusione» a livello politico del periodo rinascimentale. «Non mi convince – ha affermato il dott. Zilocchi – che la storia di Piacenza sia cambiata a causa della congiura. Ci sono state altre cose, durante i secoli successivi. Parma è riuscita a valorizzare il suo brand cioè il nome Parma in sé. Le nostre eccellenze le avevamo, ma non siamo stati altrettanto bravi. A volte anche per un po’ di sfortuna. Ai tempi di Maria Luigia nella classifica dei migliori salumi del ducato, la bondiola piacentina era al primo posto, il prosciutto di Parma solo al terzo; sarebbe stato meglio non cambiargli il nome in “coppa”. Napoleone, poi, ci scippò il territorio del Basso Lodigiano; avevamo 120 metri quadrati di marcite dove producevamo “Il Piacentino”, il miglior formaggio d’Italia. Dopo Napoleone, il Congresso di Vienna rimise a posto molte cose, ma non ci restituì quel territorio».