Riceviamo e pubblichiamo il comunicato di Michele Giardino, consigliere comunale Forza Italia .
La materia della sicurezza urbana, incrociando una pluralità di problematiche complesse e delicate – che riguardano i rapporti delle persone tra loro e delle persone con i luoghi della città – esige una discussione non ideologica. Occorre incedere con grande prudenza nei meandri dell’argomento, se si vuole provare a indagare la natura del problema ed elaborare una politica di tutela capace di produrre il massimo risultato (aumento del senso di sicurezza) con il minimo costo (tensioni sociali).
Storicamente, gli uomini fondarono le prime città con lo scopo di aiutarsi l’un l’altro e di proteggersi dai pericoli esterni. Qualche secolo più tardi, il fattore difensivo si materializzò con la costruzione di fossati e di mura. Le città erano il porto sicuro in cui ritirarsi per lavorare e vivere. Oggi le città – pensiamo a quelle europee – hanno perso questa connotazione, trasformandosi da spazio dell’incolumità in spazio del pericolo. La causa di questa trasmutazione è da individuarsi in una accresciuta eterogeneità sociale.
Il cittadino si sente minacciato dallo straniero poiché lo ritiene potenziale autore di crimini, anche micro, ovvero di comportamenti reputati borderline. Di conseguenza, richiede – a chi governa la città – di intervenire per incrementare la sua percezione positiva di ciò che lo circonda. Eppure i reati calano. A Piacenza, in particolare, nella riunione di fine luglio del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, è stato evidenziato il trend positivo del nostro territorio: una diminuzione generale dei reati che sostanzia un livello di sicurezza superiore alla media regionale e nazionale. Quindi non esiste una correlazione tra reati consumati e senso di insicurezza. Come si spiega, allora, il montare della domanda di ordine e di tranquillità?
Interi quartieri si presentano come veri mosaici di etnie, prima ancora che di classi sociali, incapaci di comunicare tra loro. L’autoctono fatica più di tutti a riconoscersi parte di una realtà di vicinato radicalmente mutata nella sua varietà antropologica. Matura in questo humus la sua diffidenza verso la diversità. Diffidenza che diventa paura quando certi comportamenti osservati superano il limite di guardia. Ecco il punto.
La richiesta di sicurezza non nasconde un’istanza di reiezione xenofoba – sic et sempliciter – dell’ospite non nativo. E’ che un ventaglio di determinati suoi comportamenti non è stato e continuerà a non essere tollerato, in ragione dell’evoluzione civile che questa parte di mondo chiamato Occidente ha vissuto. Non stiamo parlando di reati, ma di quelle condotte che, lasciate riprodursi e degenerare, suscitano preoccupazione e allarme sociale secondo l’ordinaria esperienza di vita di tutti noi: crocchi di giovani maschi in tutte le ore del giorno e della notte, consumo di bevande alcoliche, bivacchi, abbandono dei relativi rifiuti in strada, utilizzo degli spazi pubblici come vespasiani all’aperto, schiamazzi, risse. Senza parlare dello spaccio e del consumo di droghe.
La reazione delle nostre città nei confronti di certe categorie di persone, responsabili di atteggiamenti temuti poiché avvertiti come pericolosi, diventa di ostilità. È vero che l’azione amministrativa che ne segue, finisce con l’affliggere i più deboli e i più disperati, rischiando di emarginarli ancor di più. È vero anche, purtroppo, che proprio da parte di costoro promana, secondo la percezione corrente, la minaccia più immediata per l’incolumità del cittadino. Non ha quindi pertinenza il richiamo fatto da taluni a concentrare l’azione di contrasto verso gli autori di reati conclamati.
Il cittadino avverte un rischio incombente, attuale, fisico, quando attraversa una certa piazza o percorre una certa strada o entra in un certo parco pubblico, magari dopo una certa ora. Egli è portato a cercare protezione nelle immediate vicinanze dei luoghi che abita, in quello che si può definire il suo spazio vitale. Di tutte le tipologie di reato, anche gravi, che non minacciano la sua integrità fisica durante la permanenza o il transito in quel preciso luogo (“ciò che non mi spaventa qui e adesso” ci direbbe), se ne occuperà a tempo debito, utilizzando gli strumenti appropriati per difendersi da quel diverso, e più distante, genere di offesa.
Ecco che a livello urbanistico vengono concepite misure di interdizione per filtrare, intercettare o addirittura respingere gli utenti più preoccupanti da determinati luoghi (con il paradosso oggettivo che le misure che un tempo venivano adottate per proteggere la città dal nemico esterno, oggi vengono assunte per difendere i cittadini dal potenziale o effettivo malvivente interno).
Il primo indicatore del grado di libertà di cui gode una persona è la sua possibilità di movimento sereno e incondizionato su un determinato territorio. Quanti più sono i luoghi che percepiamo essere interdetti ai nostri spostamenti, tanto minore è il nostro patrimonio di libertà personale. Da questa consapevolezza erompe la richiesta di aiuto – che da qualche tempo ha assunto i toni del grido accorato – a fronte del quale chi governa le città non può più restare indifferente.
Corollario a tutto resta, però, che i programmi di integrazione dello straniero siano vigorosamente potenziati, proprio a scongiurare l’effetto isolamento/rivalsa: l’acquisizione, da parte dell’ospite, delle regole-base di civile convivenza vigenti alle nostre latitudini, dovrà considerarsi di vitale importanza, e pertanto obbligatoria, non procrastinabile e non surrogabile (ovvio, invece, che i reati che si dovessero consumare, in qualsiasi tempo, da parte di chicchessia, dovranno essere sempre seriamente perseguiti). Il dibattito è aperto.