“Un fiume di denaro dalle aziende ‘favorite’ ai conti di Alfonso Filosa”

Buste con assegni e un fiume di denaro riconducibile ai conti correnti di Alfonso Filosa. Tutto con un solo obiettivo: conoscere in anticipo i controlli dei carabinieri dell’Ispettorato del lavoro ed evitare “possibili guai” amministrativi alle aziende. E’ emerso oggi nel corso di una lunghissima udienza nell’ambito del processo a carico dell’ex direttore dell’Ufficio provinciale del lavoro (accusato di corruzione, concussione e rivelazione di segreti d’ufficio) e dell’imprenditore milanese Morgan Fumagalli (che deve rispondere di corruzione). Oltre a dipendenti e soci della ditta Bianchi di Monticelli, ha deposto anche Pietro Santini, il luogotenente del Nucleo investigativo dell’Arma dei carabinieri che ha condotto le indagini.

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L’INCHIESTA. Santini, rispondendo alle domande del pm Antonio Colonna, ha ripercorso l’inchiesta a partire dalla sua nascita. A fine 2008, il Nucleo carabinieri all’Ispettorato del lavoro dice ai colleghi del Nucleo investigativo di sospettare che alcune aziende siano informate del loro arrivo. Inoltre, avanzano dubbi anche sul ruolo del direttore Filosa, arrivando a sostenere che lo stesso avrebbe portato in una ditta un Durc (documento regolarità contributiva) fasullo. Non solo, i militari di via IV Novembre avevano saputo che un milanese (Morgan Fumagalli) avrebbe dovuto consegnare una ingente somma a un funzionario dell’Ispettorato. Infine, molte aziende, dopo essere state sanzionate, chiudevano per poi riaprire con un altro nome, ma con gli stessi dipendenti. Ce n’era abbastanza per allertare gli investigatori dell’Arma.

Una prova i militari l’avevano ottenuta il primo aprile 2009, quando i carabinieri dell’Aliquota operativa avvertivano quelli del Nucleo investigativo che avevano saputo di una telefonata in cui l’imprenditore Mainardi sapeva di un controllo che si sarebbe dovuto svolgere. L’ispezione si svolse senza destare sospetti, ma l’indagine accelerò. E anche pochi giorni prima dell’arresto, vennero intercettate telefonate, svolte da Filosa o dalla figlia, ad alcune aziende che venivano avvertite di imminenti controlli. Si arriva così al 24 giugno e all’arresto di Filosa. In caserma, la figlia di Mainardi, l’imprenditore che aveva portato l’assegno, disse ai militari che in effetti il padre aveva avuto un prestito da Filosa e che lo aveva restituito, ma affermò anche che il papà versava soldi a Filosa per non avere problemi in azienda.

IL DENARO. Solo da Mainardi, secondo i carabinieri, Filosa aveva ricevuto 45mila euro in tre anni. Risalendo il flusso degli assegni, i militari hanno scoperto che finivano tutti in conti correnti dell’ex direttore aperti a Offanengo, Cremona e Piacenza. Sempre fra il 2006 e il 2009, Filosa avrebbe ricevuto oltre centomila euro da tre aziende cremonesi che pagavano i servizi di una società di consulenza aziendale della figlia di Filosa, in cui lui era socio. Una società inesistente, ha però detto Santini, perché non aveva né sede, né uffici, né personale, né progetti.

Un’azienda piacentina di trasformazione del pomodoro aveva pagato due fatture in due anni per 24mila euro. Un’altra azienda piacentina, tra il 1999 e il 2004, avrebbe fornito mobili e suppellettili per oltre 47mila euro, tutta merce che però veniva fatturata a un’altra azienda.

Alcuni, però, alla fine si erano stancato di pagare. Secondo i militari, Filosa era intervenuto di persona chiedendo di chiudere il rapporto in modo amichevole, sempre evitando guai amministrativi alle aziende. Ad esempio, un macello di Cremona decise di pagare un viaggio negli Usa a Filosa e a sua moglie del valore di 6mila euro.

Nei rapporti con alcune aziende piacentine, poi, i carabinieri hanno ricordato il ruolo di Giani Salerno, e all’epoca segretario rpovinciale della Cisl, che teneva i collegamenti e avvertiva dei controlli di cui veniva a sapere da Filosa.

I DIPENDENTI DELLA DITTA BIANCHI. In mattinata, sono stati sentiti i dipendenti della ditta di pulizie Fausto Bianchi (è già stato condannato con il rito abbreviato e ora è ricorso in appello), di Monticelli. Tutti hanno raccontato al collegio dei giudici, presieduto da Italo Ghitti, di aver lavorato per Bianchi e aver dato a lui assegni che poi finivano a Filosa. Bianchi non poteva emettere assegni e allora li faceva ritirare da persone nominate come legali rappresentanti – anche se poi a decidere tutto era lui – e li faceva firmare loro in bianco. I conti erano alimentati da Bianchi, anche se un uomo ha detto di aver versato lui del denaro per aiutare l’azienda. Negli anni l’azienda di Bianchi ha cambiato nome più volte, ma le persone che ne facevano parte erano spesso le stesse della società precedente. Gli stessi dipendenti, alcuni diventati anche soci, hanno poi detto di aver più volte visto Filosa nell’azienda e di averlo anche notato ritirare buste con gli assegni. Gesto visibile da un ufficio con grandi vetrate. Non solo. Più volte, i dipendenti hanno anche sentito Bianchi dire che non ci si doveva preoccupare per i controlli perché c’era chi avrebbe risolto i problemi, chi “copriva le spalle”, chi “ci tira fuori”. Il processo riprenderà in settembre, quando, al termine della deposizione del carabiniere Santini, i legali di Filosa, gli avvocati Luigi Alibrandi e Benedetto Ricciardi, “controinterrogheranno” il luogotenente per cercare di smontare il castello accusatorio.