Sarà il Vescovo, come ogni anno, a presiedere la concelebrazione religiosa che giovedì prossimo, 31 maggio, aprirà la cerimonia alla “Pellegrina” organizzata da Caritas diocesana e associazione “La Ricerca” per il diciannovesimo anniversario di fondazione della casa accoglienza per malati di aids “Don Giuseppe Venturini”. La funzione avrà inizio alle 19, seguirà un momento conviviale con rinfresco offerto da amici e volontari, quindi in serata, alle 21, gli ospiti della casa porteranno in scena la rappresentazione teatrale “La guerra dei topi” che hanno ideato. L’evento (nella grande struttura alle porte della città, in strada Agazzana 68) è aperto a tutti e sono gli stessi ospiti a rivolgere l’invito a partecipare numerosi, con un messaggio in cui spiegano quanto sia “facile diventare loro amici”: “Abbiamo bisogno di ascolto, di vicinanza di fiducia, di persone che non abbiano paura di starci accanto, che vogliano condividere con noi le difficoltà, che abbiano voglia di ascoltare le nostre storie di vita. Abbiamo bisogno di compagnia, di persone che non abbiano pregiudizi, ma che ci guardino per quello che siamo, non per quello che abbiamo fatto o per la nostra malattia”.
Il bisogno di amicizia, di creare una rete di relazioni con il mondo esterno, dove molte di queste persone ritorneranno a vivere al termine del percorso riabilitativo, è rimarcato in questa ricorrenza. “Da ormai un decennio prendersi cura dei malati di aids significa molto di più che curare – spiega la dott.ssa Francesca Sali, responsabile della struttura gestita dall’associazione “La Ricerca” – : limitare il servizio di assistenza solo ad azioni sanitarie o mediche non basta per trovare equilibrio, bisogna lavorare sulla ricerca di senso di fronte al problema della sofferenza. Il tempo conquistato grazie alla cronicizzazione della malattia deve essere trasformato in tempo di vita. Per molti ospiti è una condanna che il tempo si sia dilatato: è necessario che ci sia qualcuno che ti offre del tempo leggero, nuovo e ricco; del tempo che ti conceda la possibilità di vedere ancora la bellezza della vita, sopra le macerie di una vita distrutta. Quello che come operatori possiamo fare è provare a reinventare del tempo buono, anche nella riscoperta dei riti semplici della quotidianità. Non è perché ci troviamo in una casa accoglienza per malati di aids che la vita è finita ma è nella normalità del quotidiano che la vita ha il suo compimento”.
“I nostri ospiti – prosegue – sono persone con storie di grande fragilità, per cui chiedono di essere accolti non solo per la malattia e la sua cura, ma anche per trovare un sostegno affettivo relazionale importante. Cercano una casa nel senso più ampio e autentico del termine; per questo motivo un’altissima percentuale di loro hanno permanenze lunghissime in casa accoglienza e anche quando riescono ad uscire con una propria autonomia chiedono di mantenere con gli operatori e la stessa casa un legame fatto di gesti semplici (una telefonata, un pranzo, due chiacchiere, un aiuto nello sbrigare qualche pratica o commissione…) ma che rimandano in maniera molto chiara all’idea di una famiglia che resta sempre e comunque un punto di riferimento affettivo”.