Export alimentare: trend positivo ma resta il problema regole

C’è una difficoltà alla base del sistema produttivo del settore primario italiano che non sempre riesce ad aggredire i mercati: abbiamo eccellenze che il mondo c’invidia e siamo leader in tante realtà produttive, eppure non sempre riusciamo a trasformare in valore queste eccellenze.  Sono ancora poche, infatti, le aziende in grado di affrontare da sole la competizione a livello mondiale, la strada dell’aggregazione diventa, così, un passaggio obbligato per riuscire a collocare i prodotti esattamente dove il mondo li richiede ed al prezzo adeguato.  Il processo è in atto ed i dati sull’export sono incoraggianti: l’export del comparto primario è cresciuto maggiormente rispetto agli altri settori e conta ormai per l’8% delle esportazioni nazionali complessive, ma sul mercato globale si disputa una vera e propria guerra che non sempre viene condotta lealmente, anzi.  Confagricoltura ha condotto un’indagine in occasione delle importanti manifestazioni che hanno recentemente riportato l’attenzione sulle eccellenze enogastonomiche made in Italy ed ha rilevato come  il danno al fatturato delle aziende italiane, causato solo dal cosiddetto “Italian sounding” sia attestato attorno ai  sei milioni di euro all’ora. Una perdita che alla fine dell’anno ammonta ad oltre 54 miliardi di euro, cifra ben più grande di quella, comunque non trascurabile, rappresentata dal mercato della contraffazione agroalimentare vera e propria, che vale 6 miliardi di euro.  “Mentre l’agropirateria, cioè la contraffazione vera e propria, è un illecito perseguibile penalmente – spiega Luigi Sidoli, Direttore di Confagricoltura Piacenza – l’italian sounding costituisce un enorme business che si muove in una zona grigia e può essere combattuto solo attraverso regole e accordi internazionali.  Le produzioni italiane rispettano, infatti, norme molto rigorose in termini di sicurezza alimentare, sostenibilità ambientale e benessere animale; per garantire prodotti di qualità eccellente, i produttori spesso si dotano, inoltre, di disciplinari ancor più stringenti delle norme cogenti. Tutto questo comporta costi aggiuntivi per le aziende che meritano un’azione di tutela e visibilità degli standard utilizzati per non veder erosi i propri margini a fronte di costi gestionali indubbiamente più elevati rispetto ai prodotti “similitaliani”. Un’azione indifferibile soprattutto in aree della massima importanza commerciale, come gli Stati Uniti e il Canada, dove il “similitaliano” – sottolinea Confagricoltura – supera il vero made in Italy di quasi 10 a 1, ma anche nella più tutelata Europa dove la falla dell’export è grave, con un rapporto è di 2 ad 1.  “Soprattutto – conclude Sidoli – in sede Wto vanno rilanciati due temi: la tutela del sistema comunitario delle indicazioni geografiche e gli standard produttivi in campo ambientale e sociale”.

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