I pugni in tasca di Bellocchio e Ambra

Un dramma familiare, una storia dura e violenta, quella che va in scena al Teatro Municipale di Piacenza con “I pugni in tasca”, trasposizione teatrale del film “cult” di Marco Bellocchio, opera prima che impose il regista piacentino all’attenzione internazionale, pellicola che ha segnato un’epoca .

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Appuntamento da non perdere martedì 5 aprile 2011 alle ore 21 a chiusura della sezione Altri Percorsi della Stagione di Prosa 2010/2011 “Tre per Te”, direzione artistica di Diego Maj, organizzata da Teatro Gioco Vita – Teatro Stabile di Innovazione con Fondazione Teatri e Comune di Piacenza e il sostegno di Fondazione di Piacenza e Vigevano, Cariparma e Iren.

Sul palcoscenico la difficile e drammatica storia di una famiglia devastata da malattie mentali e fisiche dove si consumeranno delitti e incesti. Lo stesso Marco Bellocchio, il grande regista italiano che nel 1965 firmò il successo cinematografico de “I pugni in tasca”, oggi ne cura la riduzione e l’adattamento teatrale per la regia di Stefania de Santis. Protagonisti Ambra Angiolini e Pier Giorgio Bellocchio che saranno affiancati da Giovanni Calcagno, Aglaia Mora, Fabrizio Rongione e Giulia Weber, un cast che si muoverà sulle scene disegnate da Daniele Spisa, con i costumi di Giorgio Armani e sulle note del premio Oscar Ennio Morricone. Lo spettacolo è prodotto da Roberto Toni.

Come spiega Marco Bellocchio si tratta di uno spettacolo che si discosta totalmente dal film dal quale è tratto: «”I pugni in tasca” deve innanzitutto rinunciare alla sua fama di film preannunciante il ’68, il film della rivolta contro le istituzioni, la famiglia, la scuola, la religione. Io oggi penso a “I pugni in tasca” come a un dramma della sopravvivenza in una famiglia dove l’amore è del tutto assente. Si vive in un deserto di affetti senza nessuna prospettiva per il futuro, una situazione di immobilità assoluta che fa pensare a un carcere o a un manicomio senza speranza di guarigione, rieducazione, riabilitazione, rinascita».

«In scena – spiega la regista Stefania de Santis – una casa su vari livelli, chiusa nello spazio chiuso del palcoscenico, stretta tra due grandi muri, una casa/ventre/prigione, un microcosmo labirintico, claustrofobico, in cui abitano dei “vuoti”, delle presenze/assenze. I cinque personaggi sono tutti in qualche modo incapaci di relazionarsi con il “fuori”. Uno solo sembra in grado di avere una relazione con l’esterno: è Augusto, il fratello che recita il ruolo di “capo-famiglia”, colui che prova a ricondurre la famiglia a una realtà ordinata e ordinaria, con i fratelli che interpretano la parte dei “figli piccoli”, con i loro dispetti, le gelosie, i giochi incestuosi. (…) Soltanto Augusto apre una finestra per prendersi la sua ora d’aria, la sua libera uscita con Lucia, la fidanzata, l’unico personaggio che vie­ne da fuori. Attraverso di lei, testimone ai margini di una malattia che spaventa, possiamo cercare di osservare: perché le famiglie possiamo solo guardarle, intuirle. Giudicarle è impossibile».