Ecco le parole di Massimo Trespidi, presidente della provincia, in vista della giornata del Ricordo di domani 10 febbraio.
“Sono passati oltre sei decenni dagli eccidi titini. Solo 7 anni fa il parlamento italiano, con una legge ad hoc, ha istituito il “Giorno del ricordo”, dedicato a una memoria dolorosa che, purtroppo, spesso ha scontato pregiudizi di natura politica e insensate contrapposizioni. Il 10 febbraio ricordiamo le foibe istriane, i 350mila italiani esuli, le migliaia di persone innocenti lasciate morire in voragini carsiche. Ricordi – lo sottolineo – non lontani da noi, dal nostro presente di stabilità e pace. Il carattere istituzionale di questa commemorazione, seppur riconosciuto solo di recente, è un segnale di profonda maturità storica, che spazza via ogni sbavatura ideologica e ogni lettura di parte.
I massacri delle foibe e l’esodo giuliano – dalmata sono e rimangono una ferita storica, una delle tremende pagine di violenza scritte da un’umanità purtroppo non atavica e lontana, ma terribilmente vicina a noi. Mi riconosco in una testimonianza indiretta di Aldo Di Biagio che lessi qualche tempo fa: “La tragedia delle foibe fu il punto di approdo di uno scontro tra vinti dove nessuno – su nessuno dei due fronti – è stato mai un vincitore”.
Guardare ai fatti è il miglior modo per scansare ogni preconcetto. La storia non serve a legittimare nessun partito e nessuna ideologia. La storia è stata scritta dagli uomini e a noi spetta il compito e il dovere di riportarla fedelmente, di tramandarla ai nostri figli nella trasparenza e correttezza.
Nessuno si impossessi del nostro passato. Quella di oggi è la giornata del ricordo e – come quella della memoria – tali devono rimanere, senza alcuna etichetta ideologica. Sorprendono alcune tesi riduzioniste che di tanto in tanto circolano e che, pur non negando il fenomeno delle violenze dei partigiani comunisti in Istria, lo riconducono al motivo della vendetta delle popolazioni jugoslave contro la barbarie del regime fascista. A queste ricostruzioni, evidentemente parziali e faziose, si contrappongono i risultati delle ultime ricerche storiografiche, concordi nel mostrare come dietro i partigiani comunisti d’Italia ci fosse lo stesso Tito, nei cui obiettivi c’era quello di fare del Friuli Venezia Giulia una repubblica popolare comunista annessa alla Jugoslavia. Queste intenzioni sono chiare e palesi alla luce di alcuni tristi capitoli della lotta partigiana, primo tra tutti l’eccidio delle malghe di Porzûs, il massacro perpetrato 66 anni fa da parte di alcuni partigiani gappisti – inquadrati nel IX Corpus sloveno – ai danni di un gruppo di partigiani della Brigata Osoppo, formazione di orientamento cattolico. In quell’occasione vennero trucidati 19 partigiani, tra cui: il comandante Francesco De Gregori, zio del noto cantautore e Guido Pasolini, fratello minore di Pier Paolo.
Non esistono vittime collaterali, morti di “serie A” e morti “di serie B”. La storia è una e il dolore è intoccabile e indistinto. La necessità di uscire da pregiudizi propagandistici e da censure di ogni tipo sono doveri che portiamo con noi, anche nei confronti di chi – segnato dal dramma di quel tragico dopoguerra – ancora conserva fratture terribili e lacerazioni nell’animo. Lo dobbiamo a quelle duemila vittime che non hanno nemmeno avuto degna sepoltura. Lo dobbiamo a Graziano Udovisi, classe 1925, ultimo superstite dell’eccidio delle foibe morto nel maggio scorso. Udovisi, originario di Pola, ma per anni legato a Reggio Emilia, con riferimento alle barbarie subite sulla propria pelle, scrisse: “Ne porto dei segni indelebili. A volte mi chiedo se, dopo la morte, quelle immagini spariranno dalla mia mente, ma quanto è accaduto non si cancella, è impossibile farlo. Ventimila morti sono pur qualcosa. Non sono da buttare via, gli italiani non possono dimenticare”. Tra quelle sparizioni quasi silenti c’è Norma Cossetto, la cui storia non finisce mai di commuovermi e interrogarmi. Vittima di atroci violenze, neanche di fronte a un branco di decine di aguzzini accettò di rinnegare le sue origini, pagando con la tortura e la morte. Di fronte a racconti storici come questi mi indigna pensare che ancora oggi ci sia chi stabilisce assurde gerarchie tra violenza “nera” e “rossa”. La sfida della memoria delle foibe e della Shoah oggi non è quella di accontentare destra e sinistra, non è quella del “colpo al cerchio e colpo alla botte”, prospettiva misera e ripugnante. Nel ricordo dei massacri del passato dobbiamo leggere la nobile requisitoria conclusiva del procuratore generale dei processi di Norimberga: essi non dovevano servire solo a punire i responsabili delle atrocità naziste, ma a impedire che esse potessero in qualche modo ripetersi. Quegli stessi massacri vanno letti anche alla luce delle parole di Hannah Arendt. Seguendo le 120 sedute del processo Eichmann (il famigerato criminale nazista) come inviata del “New Yorker” a Gerusalemme, la scrittrice giunse a conclusione che il male è banale e l’uomo lo compie quando non è aiutato a fare il bene. Parole di condanna, ma anche di speranza che mi convincono sempre più che il ricordo delle immani tragedie della storia possa sempre trasformarsi nell’occasione per costruire, da protagonisti, un mondo migliore.”