Nei giorni scorsi il quotidiano cattolico portavoce della Cei “Avvenire”, nel corso delle inchieste, ha reso noto l’esito dello spreco alimentare che, assommando tutti i valori, potrebbe sfamare ogni anno circa 45 milioni di persone.
La filiera dello spreco vede, nel nostro paese, persi ogni anno 20.290.767 tonnellate di cibo, In agricoltura le perdite ammontano a 17.700.586 tonnellate, la stessa quantità di frutta e verdura che le famiglie italiane consumano: per ogni pomodoro mangiato, uno rimane disperso nel campo che l’ha generato.
Nelle cooperative di produttori ogni anno vengono ritirate 7.500 tonnellate di frutta e verdura, per evitare il crollo dei prezzi nei mercati, e destinate, nella maggior parte dei casi, alla distillazione dell’alcol etilico, al compostaggio ed alla biodegradazione che, nelle stesse quantità, potrebbe soddisfare le esigenze di città come Bologna e Firenze.
Nei centri agro alimentari si sprecano, ogni anno, 109.617 tonnellate di cibo, le stesse che potrebbero sfamare l’intera città di Torino per un intero anno.
L’industria italiana butta, ogni anno, 2.161.312 tonnellate di cibo, la stessa quantità che garantirebbe, nello stesso periodo, il sostentamento della regione Veneto.
Nella distribuzione al dettaglio gli sprechi ammontano a 244.252 tonnellate, che garantirebbero tre pasti al giorno per l’intera città di Genova, per un anno.
La famiglia italiana, in un anno, butta 515 euro in alimenti che non consumerà , sprecando circa il 10% della spesa mensile.
Sono dati che, come associazione che si ispira ai valori cattolici, ci lasciano allibiti e scuotono parecchio la nostra coscienza, la coscienza di un paese opulento che spreca e getta via il superfluo.
Dall’altra parte un altro dato allarmante ci lascia stupiti. C’è “un’altra Italia” che ruba nei supermercati generi quali cibo fresco, abbigliamento, giochi, hi teck: questi atteggiamenti, che a detta degli psicologici spesso vengono compiuti per poter avere un’esistenza dignitosa, creano un danno che si riversa sulle altre famiglie e pesa, in termini economici, 163,00 euro per ognuna di esse, ogni anno.
Nella nostra città la Caritas Diocesana, negli scorsi anni, ha sottoscritto alcuni protocolli d’intesa con grandi centri di distribuzione al fine di recuperare i prodotti freschi invenduti, da poter distribuire a chi versa in condizioni di difficoltà: purtroppo questa azioni non è sufficiente in quanto le situazioni di disagio continuano ad aumentare.
La Provincia di Piacenza, nella persona del Presidente Prof. Massimo Trespidi, in collaborazione con la Regione Emilia Romagna e la fondazione “Banco Alimentare” ha ufficializzato un progetto rivolto a coloro che versano in situazioni di difficoltà.
Oltre alle azioni messe in campo dalle forze politiche, dalla Caritas e dal “Banco Alimentare”, sarebbe interessante, a nostro avviso, conoscere i dati relativi alla sola città di Piacenza, per capire se anche noi, a livello provinciale, siamo in “linea” con quanto pubblicato dal Avvenire a livello nazinale.
La Dottrina sociale della Chiesa, elemento determinante del nostro DNA, ci esorta, come Cattolici, a denunciare queste disuguaglianze che la nostra società vive giornalmente, per dare il necessario a chi è in difficoltà, al diverso, al disoccupato, a chi ha perso o sta perdendo il posto di lavoro per la cattiva gestione delle aziende o di chi non attribuisce il giusto significato alla destinazione universale dei beni, al bene comune, ad una politica sociale giusta e fatta non per visibilità personale ma come forma di carità che genera sempre maggiormente un paese a due velocità: coloro che vivono nel benessere e buttano il superfluo e coloro che non hanno il necessario per vivere che oggi non sono più coloro che provengono da paesi lontani ma bensì famiglie che a causa della crisi economica, che ha colpito che Piacenza, sono costrette a vivere in condizioni inumane.