«Se c’è la musica del Vangelo tutto si può riaccendere, anche in luoghi dove la follia umana ha prodotto solo distruzione». Questo il messaggio che ha voluto lasciare don Pierluigi Callegari ai numerosi intervenuti che hanno gremito la Sala Panini di Palazzo Galli per assistere alla conferenza – organizzata dalla Banca di Piacenza – sul tema “Testimonianza dal Kazakistan con riferimenti ai campi di concentramento”. Un concetto che si riallaccia – ha detto – a quanto dichiarato lunedì da Papa Francesco nella cattedrale di Riga, durante il suo viaggio nei Paesi Baltici: «Se c’è la musica del Vangelo, questa fa vibrare la vita». Don Callegari – sacerdote della Diocesi di Fidenza, da sei anni in missione in Kazakistan a supporto della Chiesa Cattolica di Astana – ha ricordato che «nella cattedrale di Karaganda c’è un grande organo: facciamo molti concerti è c’è sempre tanta gente che viene ad assistere. Perché è solo attraverso la bellezza che l’uomo può tornare a sperare».
Il sacerdote-missionario è stato presentato dal presidente del Comitato esecutivo della Banca Corrado Sforza Fogliani, che ha salutato e ringraziato tutti i convenuti, in particolare il vescovo mons. Gianni Ambrosio, presente unitamente al vicario generale mons. Luigi Chiesa, il vicesindaco Elena Baio e Luciano Gobbi, già presidente della Banca di Piacenza. «Con un gruppo di amici dell’Associazione Liberali – ha spiegato Sforza Fogliani – abbiamo organizzato un viaggio in Kazakistan per vedere i campi di lavoro forzato e rieducazione sovietici, con l’obiettivo di contribuire ad un’opera di incivilimento di cui l’Italia ha bisogno: abbiamo cominciato a conoscere quelle verità che per 70 anni ci sono state negate. Sono stati aperti gli archivi dei gulag e come Assopopolari abbiamo finanziato l’invio a Karaganda (il cui campo di lavoro è grande come Piemonte e Lombardia messi insieme) di due ricercatori che hanno reperito le schede dei soldati dell’Armir e degli italiani di Crimea deportati in quel campo di lavoro. Tra questi, anche Pietro Amani, 96enne che ancora vive alle porte di Piacenza e che abbiamo, noi soli, scoperto e poi portato qui a Palazzo Galli a raccontare la sua terribile esperienza, per la quale non ha ricevuto, dall’Italia ufficiale, nessun tipo specifico di riconoscimento».
«La scuola – ha rimarcato il presidente Sforza – porta gli studenti a visitare i lager. Giusto, ma se non gli si parla anche dei gulag si racconta una mezza verità, che equivale a dire una falsità».
Il gruppo dei Liberali Piacentini ha incontrato don Pierluigi nella cattedrale di Karaganda. «La sua serenità e la sua dedizione in una realtà dove i cattolici sono una piccola minoranza fra musulmani e ortodossi, ci hanno subito conquistato – ha affermato Sforza – e lo ringraziamo per essere qui a portare la sua preziosa testimonianza».
«A Karaganda – ha esordito don Callegari – siamo tre italiani: il vescovo, il cuoco ed io. Immaginatevi dunque il piacere di incontrare un gruppo di connazionali, oltretutto “vicini di casa” come Diocesi, arrivati in Kazakistan non come turisti, ma con uno scopo ben preciso». Don Pier (così lo chiamano a Karaganda) ha spiegato come le deportazioni abbiano rappresentato «uno dei crimini più grandi della storia dell’umanità». Deportazioni iniziate subito dopo la Rivoluzione russa del 1918 con i nemici politici del comunismo, i preti, le suore, e proseguite negli anni 30 con le purghe staliniane. «Lo scopo – ha testimoniato don Callegari – era quello di distruggere le persone, le classi sociali, i popoli: nemici da eliminare perché l’uomo libero rappresentava la minaccia più grande». Una prima selezione avveniva già con il viaggio, lunghissimo, verso terre inospitali, al Nord, dove da novembre a marzo c’è solo ghiaccio, con temperature tra i meno 30 e i meno 40. Molti morivano di stenti. Poi i lavori forzati nelle miniere di carbone facevano il resto. «Con la collettivizzazione – ha spiegato il missionario fidentino – il popolo kazako venne spoliato di tutto. Chi si ribellava veniva fucilato. Su 5-6 milioni di persone, in soli due anni ne sono morte 2,5 milioni. Furono deportati russi, ucraini, tedeschi, coreani e gli italiani di Crimea, una comunità di 3mila persone, abili costruttori di barche e ottimi coltivatori. Pensate che a Karaganda abbiamo 140 etnie diverse. Oggi conosciamo i discendenti dei deportati (nipoti, figli, e qualche raro superstite), testimoni di realtà che da noi sono ignorate». Come il campo riservato alle mogli ed agli altri famigliari degli accusati di reati contro lo Stato (circa 20mila donne) i bambini compresi, che venivano lasciati alle loro mamme fino all’età di 3 anni, per poi essere rinchiusi in orfanotrofi. O come il campo verso Sud, battezzato “Lazzaretto” e riservato ai militari e ai disabili. Luoghi che il gruppo dei Liberali Piacentini ha avuto modo di visitare.
Don Callegari ha quindi consigliato alcune letture per approfondire l’argomento: Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn; Prigioniera di Stalin e Hitler di Margarete Buber-Neumann, rinchiusa sia nei campi di rieducazione in Siberia, sia nel lager nazista di Ravensbrück (fu una delle poche che potè paragonare lager e gulag); le memorie di Pietro Leoni (sacerdote sopravvissuto ai campi), di Giovanni Brevi, cappellano degli Alpini, e di padre Wladyslaw Bukowinsky (testo al momento introvabile), le cui reliquie sono conservate nella cripta della cattedrale di Karaganda. Don Pierluigi ha ricordato la figura di questo beato, amico di Papa Wojtyla, che diventò sacerdote dopo un’esperienza da avvocato. Più volte arrestato, subì diversi anni di prigionia nei gulag, non venendo mai meno, però, alla sua missione, anche in condizioni proibitive. «Una notte – ha raccontato don Pier – andò a confessare un recluso appena arrivato al campo, ma per fare questo venne meno al divieto di lasciare la propria baracca. Fu scoperto e il capo pattuglia di guardia gli diede un ceffone. Il sacerdote avrebbe voluto reagire, ma si trattenne e tornò alla sua baracca con tanta rabbia in corpo. Più tardi comprese che quello schiaffo era stato una “carezza della misericordia”. Quel soldato poteva mandarlo in camera d’isolamento, una punizione devastante. “Con quello schiaffo mi ha voluto salvare”, disse padre Bukowinsky».