Inaugurazione della mostra fotografica di Emanuele Ferrari, sabato 3 marzo alle ore 18 a CARATTERI MOBILI in Piazzale Marconi 37, Piacenza
Con il suo raccontare attimi rubati a una storia, la fotografia è un’arte strana. Ritaglia la realtà e ne cambia le luci, i colori, le sensazioni talvolta stravolgendola. Il racconto che Emanuele Ferrari fa della Galleria Umberto I di Napoli nella mostra “FRAGILE” – che si aprirà sabato 3 marzo a CARATTERI MOBILI – attinge alla realtà, per andare oltre.
Dalla presentazione di Gabriele Dadati
«Che storia è questa? È la storia di un sogno interrotto. La Galleria nasce durante la Belle Époque, un periodo di sogno in cui le città conoscevano per la prima volta la corrente elettrica e Parigi sembrava sempre a un passo. E lo era davvero, per i tanti artisti d’ambiente napoletano che all’epoca si trasferivano là a cercare (e soprattutto a trovare) fortuna. Giuseppe De Nittis, Vincenzo Gemito, Antonio Mancini, i cartellonisti… Poi qualcosa è accaduto. Allora, lo scoppio della Prima guerra mondiale. Oggi, lo scoppio d’indifferenza che rende fragili le vite degli altri e sterili le nostre. Tra
noi e loro ci raccontiamo che ci sia la paura. Mentre in realtà c’è l’indifferenza. Emanuele Ferrari testimonia felicemente tutto questo. Trovandosi a Napoli per altri motivi, si rende conto che il cielo in Galleria non esiste più. Perché? Perché il cielo, in fin dei conti, è un infinito ammasso di aria. E l’aria è quella cosa che ci contiene e sta tra di noi a coprire il vuoto. Ma l’indifferenza il vuoto lo genera. Ci stacca dagli altri. E quindi il cielo non può più esistere. Lo facciamo scappare noi, il cielo. Almeno dalla Galleria. Emanuele Ferrari testimonia l’assenza. Poi esce dalla Galleria e ci mostra un azzurro smaltato e pazzesco. Ci mostra che non ha smesso di esistere. Di nuovo a colori. In immagini in cui l’uomo è però assente.
Cos’è, quindi, questa doppia serie di fotografie intitolata FRAGILE, come la scritta che spesso leggiamo sui cartoni d’imballo? Una constatazione di messa all’incanto del nostro rapporto con il cielo. E un conseguente, implicito invito: quello a riappropriarci del cielo».