“Processo Aemilia, ecco come la n’drangheta faceva affari nel Piacentino”

E’ il 2009. Una notte l’auto di un noto imprenditore di Castelvetro (Piacenza) va a fuoco. Nessun corto circuito, le indagini parlano chiaro: è l’avvertimento della n’drangheta a scendere a patti con la cosca. Un’intimidazione bella e buona. Da quel giorno, proprio nel Piacentino, si inizia a scoperchiare un vaso di Pandora che porterà a uno spaccato di malaffare in Emilia dalle dimensioni inimmaginabili. Per otto ore Camillo Calì, il luogotenente piacentino dei carabinieri che in quegli anni era in servizio al Nucleo operativo della Compagnia carabinieri di Fiorenzuola, ha risposto alle domande dei piemme della Dda Marco Mescolini e Beatrice Ronchi. Dopo il maggiore Andrea Leo (dal gennaio 2010 all’ottobre 2013 il comandante della Compagnia) nei giorni scorsi, è stato lui questa volta a vestire i panni del supertestimone al maxi-processo Aemilia in corso a Reggio Emilia, ormai da diverse udienze entrato nel vivo. Lui, Calì, che conosce bene quel territorio della Bassa piacentina, da tempo immemore infettato dalla mafia calabrese. Lui che, proprio per aver dato più volte scacco negli anni ai boss cutresi della zona (leggi indagine Grande Drago), è stato più volte minacciato di morte dagli stessi e ancor oggi incrocia gli sguardi di sfida di alcuni di loro, quelli che hanno già scontato pene antiche e che sono tornati a fare i “signorotti”. 

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Di molti di loro ha parlato Calì, facendo capire esattamente che tutta Aemilia è partita dal coraggio di andare a fondo di quel caso dell’auto bruciata a Castelvetro e dai ricatti all’imprenditore portati avanti dai fratelli Pierino e Pasquale Vetere. E poi le intercettazioni legate alla volontà di organizzare un attentato ai danni dello stesso imprenditore, la volta in cui fu costretto a chiudersi in uno stanzino della ditta per sfuggire alle minacce. E ancora la partita di 13 chili di cocaina intercettata in Venezuela e costata l’arresto all’ex poliziotto della Polstrada di Cremona Massimo Cavedo; sempre sullo sfondo, presentissimo, la figura di Francesco Lamanna, il capo del “tentacolo” piacentino e zone limitrofe. Calì si è soffermato sul «clima di intimidazione e grave compromissione della sicurezza in quel periodo», a cui si accompagnava inoltre «una omertà nelle denunce». La n’drangheta non usava solo le maniere forti. In una intercettazione, infatti, uno degli imputati sottolinea: «Qui si governa con la pila (denaro, ndr) e con la potenza». Ecco perché le indagini si sono concentrate anche sue due consorzi controllati dalla cosca, ritenuti i serbatoi per le false fatturazioni e per i lavori, spesso commissionate da privati, mai realizzati. I magistrati vogliono ancora andare a fondo. Per questo l’esame di Calì continuerà anche oggi venerdì 27 maggio.