Il primo aprile è arrivato, di conseguenza è cominciata la nuova campagna lattierocasearia. Non è stato certamente un bell’inizio, perché come previsto si è assistito all’azione dell’industria che dopo aver disdettato tutti i contratti non ha provveduto al rinnovo degli stessi con diverse aziende agricole. Circa 3000 quintali di latte prodotto giornalmente non hanno trovato una collocazione come conseguenza di un’assoluta assenza contrattualistica. Tutto ciò unito ad un prezzo largamente sotto ai costi di produzione, mette definitivamente in ginocchio un intero settore produttivo. Siamo, alla conclusione di un percorso, iniziato nel 1983 con le quote latte, proseguita negli anni con la svendita di vari marchi ad una multinazionale francese, fino a farle avere il monopolio del settore, passando allo strapotere che ha sempre più assunto negli anni la grande distribuzione organizzata. La zootecnia da latte è ridotta al lumicino, il latte quando è ritirato con prezzi ben al di sotto dei costi di produzione. Il settore è vittima della più totale subalternità dell'agricoltura all’industria, i regolamenti europei che hanno tolto l’obbligo di indicare sulla confezione l’origine del prodotto hanno messo il mondo della trasformazione in una posizione d’assoluto vantaggio. Il sistema industriale è sempre più rivolto all’attività speculativa e sempre meno incline a condividere percorsi territoriali ed economici, qualcuno si è convinto di non aver bisogno di nessuno.Il comparto di conseguenza rischia seriamente di chiudere attività, che hanno alle spalle generazioni nel più totale disinteresse del governo, che anzi ostacola le regioni tipo la Lombardia nel confronto diretto con Bruxelles. Nelle intercettazioni telefoniche il ministro Guidi dice al fidanzato che gli italiani sono un popolo da mungere come le vacche. Qualcuno, il ministro Martina magari, dovrebbe aggiornarla, dalle vacche in Italia resta ben poco da mungere. Non bastavano le sopraccitate condizioni per determinare il profondo stato di crisi ormai irreversibile del settore. Ci voleva anche l’embargo russo, che pesa come un macigno. Parliamo di circa cinque miliardi di danni diretti ai quali dobbiamo aggiungere altri elementi. Non si può pensare che i mercati, la fiducia dei consumatori esteri, l’educazione alla qualità delle produzioni made in Italy siano un rubinetto che si apre e si chiude, abrogando sanzioni che di fatto sono state imposte dagli Stati Uniti, paese che invece ha guadagnato da questa fase di muro contro muro. Abbiamo perso più di un canale commerciale sicuro, abbiamo creato un eccesso d’offerta in Europa e non sarà facile ripartire sul mercato russo dove la nostra fornitura è stata soppiantata dalla produzione nazionale o d’altri paesi. Abbiamo concesso via libera a nazioni che producono con standard inferiori ai nostri, non solo qualitativi, ma anche dal punto di vista del rispetto dell'utilizzo dei prodotti fitosanitari, del benessere animale, della tutela del lavoro. Chiudere un’azienda agricola significa non solo mettere in crisi diverse famiglie, considerando anche l’indotto, ma vuole dire anche avere un presidio in meno a tutela del territorio. Il ministro Martina, appellandosi ai dati Istat sul Pil del settore agricolo, afferma che l’agricoltura nel 2015 ha fatto registrare la maggiore crescita su base annuale degli ultimi anni. Peccato che i dati completi del settore agricolo non si siano ancora visti nella loro completezza e che ciò non sia ancora avvenuto a fine marzo fa pensare. Sicuramente i preoccupanti segnali di deflazione che provengono dalle nostre campagne a causa del crollo dei prezzi pagati ai produttori non lasciano molti dubbi sulla strada del declino imboccata inesorabilmente dalla nostra agricoltura. L’Europa non perde occasione per infierire pesantemente. Da Bruxelles arrivano dettami che il governo Renzi esegue senza battere ciglio. L’ultimo esempio, l’approvazione del piano olivicolo nazionale, solo con l’obiettivo di distogliere l’attenzione dal vero problema che riguarda l’importazione d’olio dall'Africa . Ormai i grandi marchi sono in mano spagnola come evidenziato da autorevoli quotidiani americani. Per una nazione perdere la propria sovranità alimentare è gravissimo, significa mettere a repentaglio il bene più importante dei propri cittadini ovvero la salute. Il copione è sempre più chiaro,lo stesso utilizzato nel medioevo ovvero confondere le idee al cittadino. Siamo passati dal latinorum casinorum di Don Abbondio ai termini anglofoni come greening o green public procurement ma il fine è lo stesso. La triste verità è che l’Italia non perde occasione di confermare la propria pochezza a livello europeo,non si fa nulla per opporsi alla volontà dei burocrati di Bruxelles, in mano alle banche e alle multinazionali, se non sollevare un po' di fumo. La volontà che l’Europa persegue da tempo e con feroce e spietata determinazione è di trasformare l’agricoltore e l’allevatore italiano in una sorta di tutore dell'ambiente. A produrre, a trasformare e a commercializzare ci penseranno le multinazionali americane e del Europa settentrionale, che non si faranno certo tanti problemi a mettere sugli scaffali dei grandi centri commerciali prodotti di scarsa qualità,senza nessuna tutela per la salute del consumatore, riportanti sulla confezioni riferimenti al tanto apprezzato made in Italy. Il mondo agricolo, che inutile negarlo ha notevoli responsabilità,prima di tutto la mancanza di una rappresentatività sindacale seria,deve trovare un minimo di orgoglio e la forza per reagire. Supportato in questa operazione da una politica seria, conoscitrice delle problematiche, pronta ad intervenire con gli strumenti adeguati. Se non, come si evince sempre dalle intercettazioni telefoniche del ministro Guidi,anche in questo caso ci pensi Maria Elena. Speriamo, anche se nutriamo forti dubbi, legati non solo alle capacità del ministro, ma anche alla sua volontà di affrontare il problema e alla sua capacità di opporsi allo strapotere di un'Europa sempre meno dei popoli e sempre più dei burocrati legati ai banchieri, ai poteri forti,alle multinazionali che gestiscono l’industria alimentare e la grande distribuzione organizzata. Dobbiamo intervenire, non possiamo permetterci che la nostra tradizione agroalimentare, frutto del lavoro, del sudore , dell'impegno di generazioni sia disperso. Lo dobbiamo alle generazioni future.