Oltre 16 anni di reclusione sono stati inflitti ai sei imputati accusati di aver creato un vero e proprio "impero" del malaffare: creavano società o ne rilevavano altre in via di fallimento operanti nel campo dell'autotrasporto per poi "spolparle" e rivendere beni a terzi. Un vorticoso giro di denaro e camion, compravendite sospette di tir, motrici e container. Beni che, in realtà, sarebbero dovuti toccare ai creditori. In questo modo facevano soldi. Molti soldi. Basti pensare che durante la perquisizione nella casa dell'indagato principale – il 70enne faccendiere di La Spezia, Riccardo Trasendi – sono state trovate negli armadi 50 giacche con nascoste nelle tasche migliaia di euro, a dimostrazione di quanta disponibilità di denaro avessero. La Dia (Direzione investigativa antimafia) di Genova, che ha condotto le indagini insieme alla Guardia di Finanza di Piacenza, aveva ipotizzato una distrazione di beni per ben 11 milioni di euro.
Questa la sentenza pronunciata dal gup Italo Ghitti (piemme Antonio Colonna) nel processo celebrato con rito abbreviato: cinque anni di reclusione per “bancarotta fraudolenta per distrazione” a Trusendi, considerato il personaggio chiave dell’inchiesta (cadute le accuse di bancarotta documentale e autoriciclaggio); due anni di reclusione per bancarotta per distrazione a Giovanni Carpentieri. E poi quattro patteggiamenti: 3 anni e 8 mesi di reclusione per Roberto Piras, vecchio contrabbandiere poi riciclatosi nel mondo del narcotraffico e, a quanto ha sostenuto la Dia, fiancheggiatore dell'n'drangheta; un anno e sei mesi per Gabrielle Baldar, avvocatessa con parecchi interessi al nord e con legami con il mondo della politica, dell'alta finanza e delle banche e che veniva sfruttata ora collaboratrice per gli affari ora per sanare posizioni processuali pendenti degli amici; due anni a Iuri Bernardini e altrettanti per Alessandro Ricco.
All’“impero” era riconducibile almeno una ventina di aziende, tra quelle moribonde e quelle create ad arte, collocate in varie zone del nord, dalla Liguria al Piemonte, dalla Toscana all'Emilia Romagna. Tra le ditte che avevano creato ad hoc, era il 2008, anche la Caorso Trasporti, "riempita" di qualcosa come 337 autoveicoli, poi venduti a compratori ignari per fare cassa dopo averne dichiarato il fallimento. Alla Caorso Trasporti, come in altri casi, il curatore fallimentare trovava le casse vuote, con buona pace dei creditori. Erano stati intercettati conti a loro riconducibili in svariate banche estere, Svizzera, in Francia, nel Principato di Monaco. Accertate anche operazioni importanti, per milioni di euro, in Bulgaria; volevano portare il gas in Sardegna dall'Algeria. "Personaggi di un certo calibro – sottolineò il colonnello Sandro Sandulli, capo centro della Direzione Investigativa Anitmafia di Genova – che maneggiavano quantità spropositate di soldi e che nelle intercettazioni telefoniche dimostravano di agire senza scrupoli".