“Ho sbagliato: non dovevo uccidere una persona. Ho commesso una stupidaggine”. A Gianluca Civardi non sono bastate le parole di pentimento. Non sono bastate nemmeno le lacrime: la Corte d’Assise di Milano lo ha condannato al massimo della pena: ergastolo con otto mesi di isolamento. Accolta, di fatto, la richiesta del piemme Maria Teresa Latella. Si è concluso così oggi (26 novembre 2015) il giudizio in primo grado per uno degli omicidi più efferati che la storia piacentina ricordi: l’ormai tristemente noto “delitto del trolley”, costato la vita al professore milanese di Estetica Adriano Manesco. La Corte presieduta dal giudice Guido Piffer ha di fatto equiparato la pena a quella del co-imputato, Paolo Grassi, anch’egli condannato all’ergastolo qualche mese fa dopo essere stato giudicato con rito abbreviato (in aula era presente anche il suo avvocato Alessandro Stampais). Il 7 agosto del 2014 i due piacentini tesero l’agguato mortale al professore nel suo appartamento di via Settembrini: Manesco venne strangolato e accoltellato a morte. Poi, per disfarsi del suo cadavere, lo sezionarono e lo chiusero in una valigia buttata poi in un cassonetto della spazzatura a Lodi.
“Siamo increduli, non sono state considerate le nostre argomentazioni” hanno commentato dopo la lettura della sentenza gli avvocati difensori Francesca Cotani e Andrea Bazzani che pure nelle loro arringhe difensive avevano cercato in primis di smontare la tesi della premeditazione dell’omicidio invitando poi i giurati a fare una netta distinzione tra il ruolo di Civardi e quello di Grassi. Ricorreranno naturalmente in appello, laddove riproporranno la richiesta di perizia psichiatrica negata dalla Corte pochi giorni fa.
Civardi ha pianto, si diceva. Lo aveva già fatto durante il processo quando qualche settimana fa vennero ascoltati in qualità di testimoni il padre e la sorella. Lo ha rifatto ieri, forse consapevole che sul suo destino, di lì a poco, sarebbe stata scritta una sentenza pesantissima. Si è rivolto così ai giurati: “Sono ben consapevole di quello che ho fatto. Ho capito di aver sbagliato. L’ho ucciso perché era un pedofilo e non lo sopportavo. Anche in questi mesi di carcere a contatto con altri detenuti c’è stato chi mi è rimasto vicino rimproverandomi di essere arrivato a tanto. Sarebbe bastata una denuncia e forse non avrei passato questi guai. So che questo rimorso e questo magone mi accompagneranno tutte le sere quando andrò a dormire. Manesco non meritava quella fine, non meritavano nemmeno i miei genitori tutto questo. L’unico che merita di essere punito sono io. Merito la pena che riterrete più giusta. Userò gli anni di carcere che mi resteranno per riflettere sul fatto che certe sciocchezze non vanno commesse. In quest’aula è stato detto che non sono una persona particolarmente emotiva. Questo non significa che io non stia male per quello che ho fatto. Mi dispiace davvero”. Pochi secondi di silenzio, poi ha aggiunto: “Voglio però dire una cosa sul movente: io non ho mai preso soldi da questa persona. Io non avevo bisogno di soldi, non ho mai toccato il suo computer, non ho mai toccato una carta di credito. Se avessimo voluto rubargli i dati e i soldi avremmo avuto tutto il modo e il tempo di farlo. L’ho ucciso perché Grassi mi aveva detto che era un pedofilo. E quel giorno nell’appartamento abbiamo finto di essere omosessuali per carpire la sua fiducia in modo tale da farci dire cosa faceva con i bambini nei suoi viaggi all’estero o anche qui. Dopo quello che disse, ucciderlo mi era sembrata la cosa migliore da fare per risolvere le cose. Ho fatto una stupidata”.
Nella requisitoria durata un’ora, il piemme ha ricostruito i fatti processuali puntando sulla premeditazione di un delitto (“una progressiva convinzione maturata nel tempo”) che aveva come scopo “il lucro”. “Non avevano solo l’intenzione di rapinarlo, ma anche di farlo fuori – ha detto – Si volevano appropriare dell’identità di Manesco perché se fosse scomparso, nessuno se ne sarebbe accorto”. Oltre all’ergastolo e all’isolamento, Latella ha anche chiesto il sequestro conservativo dei beni per le spese processuali.
Per la difesa, l’avvocato Bazzani ha sottolineato come, dal canto suo, “non c’è stata premeditazione” ma che il delitto sia arrivato per “un dolo d’impeto”: “Se Manesco non avesse confermato di essere un pedofilo, l’omicidio poteva essere evitato. Grassi amava vivere al di sopra delle proprie possibilità, Civardi no. Civardi era uno che ci teneva alla reputazione di essere una persona generosa. Civardi era una persona debole psicologicamente, una debolezza che Grassi ha sfruttato biecamente”. La collega Cotani ha inizialmente posto l’accento sull’eccessiva velocità del processo per poi evidenziare il comportamento processuale e la collaborazione prestata da Civardi, ben guardandosi dal distinguerne l’atteggiamento da quello di Grassi. “Se questo processo si è potuto svolgere è stato grazie a Civardi che ha sempre collaborato: è stato lui a indicare dove si trovava il cassonetto”. Infine ha ribadito di essere profondamente “preoccupata per le condizioni psicologiche del suo assistito” che ancor oggi “vede quel terzo uomo nella casa”: “Nonostante si mostri forte, Civardi sta soffrendo moltissimo”.
La sentenza è stata pronunciata poco prima delle 15. Termine 60 giorni per le motivazioni.