“Civardi mi confidò che prima di morire avrebbe voluto provare l’emozione di uccidere un uomo. Era disturbato dal fatto che il professor Manesco fosse un pedofilo e che se dovevamo uccidere qualcuno, era la persona che meritava di più poiché faceva del male ai bambini”.
A dirlo in aula, davanti alla Corte d’Assise nel processo per il delitto del professor Adriano Manesco, è stato Paolo Grassi, già condannato all’ergastolo in primo grado per lo stesso delitto e chiamato a deporre in qualità di testimone. Una deposizione durata più di quattro ore, quella dell’amico di una vita (accompagnato dal suo legale Alessandro Stampais) del 32enne fiorenzuolano; deposizione in cui ha ripercorso passo dopo passo tutti i dettagli dell’efferato omicidio che si consumò il 7 agosto 2014 nell’appartamento milanese di via Settembrini di proprietà di Manesco. In aula quasi nessuno sguardo tra i due, con Civardi che ha ascoltato per lungo tempo seduto con il capo chino, talvolta chiamando a sé i difensori Andrea Bazzani e Francesca Cotani per suggerire qualcosa.
Rispondendo alle domande del pm Maria Teresa Latella, Grassi ha ammesso che “tutto il piano è stato deciso di comune accordo sia quando si trattava di entrare in possesso dei dati bancari della vittima sia nella pianificazione dell’omicidio”.
Un’idea, quella di arrivare ad uccidere, che “è maturata gradualmente”. E Grassi più di una volta ha usato il termine “premeditato”, concetto reso più esplicito dai vari acquisti di materiali, dalla mannaia al seghetto fino a sacchi, stivali e altro, fatti nelle settimane e nei periodi antecedenti il delitto.
“Da tempo, fin dal 2012 – ha detto – eravamo stanchi delle nostre vite e meditavamo di cambiarle. Soprattutto Civardi, alla fine di quell’anno, confidò che viveva un periodo di stress pesante dovuto al lavoro e non trovava più nulla che gli desse emozioni e motivazioni”. Ma cambiare vita come? “Andando via, in un posto caldo e aprire una nostra attività. Pensavamo alla Thailandia, dove eravamo già stati, o al Brasile, senza però escludere altre mete”.
Poi quel giorno al Rossetti market il piano divenne più nitido: “Mi disse che prima di morire avrebbe voluto provare la sensazione di uccidere una persona”. La vittima sacrificale era diventata dunque quel Manesco, il professore di 77 anni che Grassi aveva conosciuto un paio d’anni prima casualmente in un ristorante di Milano, e del quale aveva riferito all’amico non solo la passione per i viaggi in Asia, ma anche le tendenze omosessuali e pedofile. Ragioni che, stando a quanto dichiarato da Grassi in aula, lo rendevano “meritevole di essere ucciso”. Per coronare il loro sogno di fuga, occorreva prima “trasferire il denaro dal suo conto corrente nelle nostre disponibilità, e poi eliminarlo”.
IL RACCONTO DELL’OMICIDIO
Così Grassi giunge al racconto di quel 7 agosto. L’arrivo in casa di Manesco intorno alle 15 dopo aver lasciato a Piacenza i telefoni cellulari “per crearci un alibi”; la richiesta di far salire nell’appartamento “un amico (Civardi, ndr) che era desideroso di conoscerlo”. E quindi l’assenso. Con sé i due avevano un trolley e poi i due zaini con dentro “il materiale”. Le chiacchiere sui viaggi nell’est, i vari desideri, gli interessi comuni. Poi la visita improvvisa di un intermediatore immobiliare. “Il professore ci fece nascondere in camera – riferisce Grassi – Sentimmo che con quella persona parlava della compravendita dell’appartamento e di una caparra. Per mezzora restammo in camera e ne approfittammo per spulciare alcuni dati bancari che aveva annotato su un’agenda”. Poi, tornati da soli, l’offerta di bere una tazza di thé insieme, l’invito a spogliarsi per mettersi a proprio agio. “Ci parlò della sua omosessualità, dei suoi viaggi in Thailandia dove aveva a disposizione dei bambini. Ci chiese se eravamo una coppia e noi rimanemmo sul vago”. “La bevanda che ci offrì era ‘pulita’” ha specificato il piacentino. Poi il trasferimento in salotto.
NEL SALOTTO SI CONSUMA IL PIANO CRIMINALE
Qualche minuto dopo, intorno alle 17,30, prende corpo il piano criminale. “Civardi era seduto sul divano. Manesco afferrò un atlante per mostrarci alcune cartine. Si mise in ginocchio per sfogliarlo. Era in una posizione favorevole. A quel punto Civardi gli tappò la bocca con due guanti in pelle. Io presi un laccio e gli legai le mani. Lo spaventammo, Civardi con un coltellino che gli passai, e io con un taser. Il professore era impaurito e Civardi gli disse che non gli sarebbe accaduto nulla se ci avesse dato tutti i dati bancari riferiti all’home banking. Lui si calmò e ce li diede. Andai nell’altra stanza e verificai che i dati erano corretti”. Sul conto di Manesco c’erano 7mila euro, non certo una cifra da capogiro. “Poi tornai – prosegue Grassi – Civardi, mentre gli teneva tappata la bocca, tirò fuori un laccio sottile dalla mia tasca e iniziò a strangolarlo”.
GRASSI: “LA VISTA DEL SANGUE MI FA SVENIRE”
A quel punto Grassi riferisce di “non essersi sentito bene”. “Mi dava fastidio. Lo stava strangolando e con il coltello aveva iniziato ad accoltellarlo. C’era del sangue. E poiché fin da piccolo soffro di una sindrome che alla vista del sangue mi fa svenire, feci altre cose: chiusi le tende delle finestre di tutta la casa per evitare che qualcuno ci vedesse. Passavo nel salotto, ma cercavo di non guardare per paura di svenire. Sentii qualche rantolo fino a quando Manesco morì. A quel punto Civardi mi chiese di aiutarlo a trasportare il corpo nel bagno. Mi sentivo male, ero sotto choc, dissi che non ero in grado di farlo. Poi però lo trascinammo nella doccia”.
IL “DEPEZZAMENTO”
A quel punto, sono quasi le 21, inizia quello che Grassi definisce il “depezzamento”. “Non ho visto materialmente cosa faceva. Mi dava indicazioni, mi chiedeva di passargli gli attrezzi, di prendere una valigia di Manesco che era sopra l’armadio. Andai anche fuori a comprarne una terza. Mi passava i sacchetti con dentro le parti del corpo del professore. In bagno entrai solo alla fine quando aiutai Civardi a chiudere il corpo nella valigia. Per farlo ci siamo seduti sopra. Prendemmo tutto quello che si poteva dei suoi effetti personali. E poi mi dedicai alla pulizia dell’appartamento”. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, “il professore non era in una pozza di sangue. Sì, sangue ce n’era, ma solo addosso e sotto, e posso assicurare che non abbiamo coperto alcuna superficie. Chiudemmo il corpo mutilato in una delle tre valigie e poi la trasportammo a fatica giù per le scale”.
Quindi gli aspetti già noti. La chiamata del taxi, la fermata a Lodi e lo scarico della valigia con il corpo e degli altri sacchetti in due cassonetti vicini alla stazione. Infine l’arrivo a Piacenza dove Grassi, svelando il mistero del terzo trolley, ha raccontato di averlo gettato insieme a Civardi in un cassonetto vicino al parcheggio della stazione.
Prima di Grassi era stato sentito l’ispettore piacentino della Squadra Mobile Fabio Pieraccini che ha parlato degli accertamenti fatti nell’appartamento di via Settembrini.