Scoppio alla Pertite, a 75 anni di distanza i 795 feriti hanno un nome

Sono 795 le persone che sono rimaste ferite a causa di esplosioni avvenute nelle aree militarti cittadine. Il dato è stato redatto da Stefano Pareti, ex sindaco di Piacenza e storico, nell’occasione della cerimonia di commemorazione delle vittime della Pertite. 

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Un ricordo avvenuto, come sempre, nel cortile di palazzo Gotico in mattinata, sabato 8 agosto, per commemorare le vittime della Pertite, nel 75° anniversario della tragica esplosione che causò l’uccisione di 47 persone e il ferimento di molte centinaia. 
Stefano Pareti, con il suo studio, ha così voluto dare un nome e un cognome a tutti coloro che lasciarono la vita o vennero feriti, sia nel 1928, con i 13 operai morti e i 3 feriti, nel primo scoppio nel Laboratorio Caricamento Proiettili e poi del 1940 con i 47 morti e le centinaia di feriti nell’esplosione della Pertite. 

“La città ha avuto dei vantaggi, anche dal punto di vista occupazionele – ha spiegato – ma ha anche pagato un prezzo molto salato per la presenza militare”. 
Il suo studio si è basato incrociando i dati pubblicati dal vecchio quotidiano fascista “La Scure” e un elenco nelle disponibilità del brigadiere Gennaro Di Lauro, ex vice direttore dell’Arsenale. 

Il discorso di commemorazione delle vittime della Pertite dell'assessore Luigi Gazzola

"Settantacinque anni fa, in un pomeriggio d’estate destinato a cambiare per sempre le vite di decine di famiglie, un boato improvviso scosse la città, ammantando interi quartieri con la polvere densa dell’esplosione che aveva sventrato la Pertite. Erano le 14.42 dell’otto agosto 1940, quando il turno di lavoro nel grande stabilimento di via Emilia Pavese, che all’epoca contava un migliaio di addetti, venne interrotto dal fragore di due scoppi ravvicinati, violenti, ineluttabili nel loro irrompere brutale: sotto le macerie della fabbrica violata, nella sua ossatura spoglia e ormai indifesa tra il fumo e i detriti, caddero 47 persone e 500 restarono ferite.
Non fu mai chiarito, nell’incedere sordido di una guerra che era alle porte del nostro Paese, se quella deflagrazione devastante fosse l’atto indegno di una mano vile e assassina, o un incidente legato alla pericolosità della materia che veniva maneggiata nella catena di montaggio per il caricamento dei proiettili. Al di là delle cause e delle responsabilità, su cui il silenzio assordante del regime fascista non contribuì certo a fare luce, il tempo non ha cancellato il dolore, lo sgomento, il senso profondo di condivisione che lega la nostra comunità alle vittime di questa tragedia, così come di quella che dodici anni addietro, il 27 settembre del 1928, provocò 13 morti, il ferimento grave di tre operai e, in modo più lieve, di due donne e un neonato. 
Oggi, il ricordo ci unisce non solo nell’abbraccio ideale e sincero a coloro che – bambini, sposi, genitori, fratelli – da quel giorno non poterono più trovare conforto né gioia negli affetti a loro più cari, ma anche nella consapevolezza di una domanda che, nel silenzio carico di rispetto e commozione con cui ci accostiamo a queste lapidi, non perde la propria attualità, né l’urgenza di avere risposta: perché? 
Lo chiediamo ad alta voce, ancora una volta, nella stessa data in cui ricorre la Giornata del Sacrificio del lavoro italiano nel mondo, rendendo omaggio ai 262 minatori, 136 dei quali emigranti nostri connazionali, che persero la vita nel sito belga di Marcinelle, dove si estraeva il carbone che era, per quegli uomini e ragazzi mai tornati a casa, emblema di dignità e fatica quotidiana. Proprio come la polvere da sparo per le operaie e gli operai della Pertite tanti anni fa o, soltanto nelle settimane scorse, un grappolo d’uva per Mohamed, 47 anni e Zacharia, 4 figli, o per  Paola, 49 anni, madre di tre figli morta di stenti sotto il sole delle vigne in Puglia: la notizia della sua scomparsa è stata tenuta nascosta per settimane, con un’omertà che si fa connivenza, come avviene per i tanti braccianti senza volto, senza nome, che per pochi euro affrontano mansioni durissime senza diritti, senza assicurazione, senza garanzie. Perché, tra quei campi di cui celebriamo i prodotti di eccellenza, lo Stato è assente? Perché non si vigila mai abbastanza tra le maglie dei subappalti e delle gare al ribasso di cui i lavoratori, inevitabilmente, pagano il prezzo sulla propria pelle, nel giro d’affari del sommerso che è innanzitutto sinonimo di sfruttamento? 
Questo, d’altra parte, è il monito della Pertite ieri, della fabbrica di fuochi d’artificio di Modugno oggi, di realtà come il Petrolchimico di Marghera o la Thyssen-Krupp di Torino che sono diventati, nell’immaginario collettivo, il simbolo di un richiamo rivolto con forza alle nostre coscienze: il dovere delle istituzioni e del mondo produttivo di tutelare e promuovere il lavoro come strumento di vita. L’Anmil, che come ogni anno è qui accanto a noi per rendere onore alle vittime della Pertite, ha rilevato che nei primi cinque mesi del 2015 si sono verificati 388 incidenti mortali tra cantieri, fabbriche, terreni agricoli, aree produttive: 30 in più rispetto allo stesso periodo del 2014. Un aumento cui si accompagna quello delle malattie professionali, con quasi 6000 denunce in più tra il 2013 e l’anno successivo. Questi numeri sono qualcosa in più di fredde statistiche. Ogni cifra è una storia che tocca il cuore. 
Sono certo che qualcuno, tra noi che siamo qui presenti stamattina, potrebbe testimoniarlo. Forse c’è chi era bambino quando l’esplosione della Pertite fece tremare i vetri delle finestre e sbattere le porte nelle case dell’Infrangibile e di Sant’Antonio. C’è chi ha salutato un familiare, quel mattino come sempre, con un sorriso e l’augurio di buon lavoro. E’ con un pensiero speciale rivolto a ciascuno di loro, che rievochiamo quel che accadde in quell’8 agosto del 1940, che potrebbe anche rappresentare, per Piacenza, la traccia indelebile del dramma che avrebbe colpito il nostro territorio con il secondo conflitto mondiale. Perché quella fabbrica era un ingranaggio della fiorente industria bellica. Perché l’ombra della guerra potrebbe essersi insinuata sino a indurre – ipotesi che non è mai stata esclusa del tutto – l’attentato. 
Non è un caso, allora, che un anno fa sia stata apposta in questo stesso sacrario la stele a ricordo delle vittime civili di guerra, grazie all’associazione che con dedizione instancabile ne coltiva la memoria. Quale sia la lettura, l’interpretazione che la Storia ci consegna riguardo a quel tragico evento, una cosa è certa: a colpirci nel profondo è l’innocenza di chi ha pagato con la propria vita, schiacciato in un caso come nell’altro da interessi e speculazioni, dalla mancanza di sicurezza, dallo scontro impari e ingiusto tra onestà e profitto ad ogni costo. Questo, allora, è il senso autentico della nostra presenza, di una comunità che si raccoglie per non disperdere il proprio passato, per non lasciare vano l’appello che ci viene rivolto dalle donne e dagli uomini cui oggi tributiamo il nostro omaggio: coltivare la pace, la giustizia, l’equità sociale. Perché ciò che è stato non si ripeta".