“Due biglietti gratis, finale di Coppa Campioni a Bruxelles, settore Z. Non mi pareva vero…”. Ricorre il 29 maggio il 30esimo anniversario della strage dello stadio “Heysel” nella capitale belga, dove morirono 39 persone di cui 32 italiane. Il tempo trascorso non ha cancellato né il ricordo né il dolore di una notte drammatica – quella del 29 maggio 1985 – dove quella che doveva essere una nottata di festa per il big match Juventus-Liverpool si è trasformata nella più grave tragedia avvenuta in un impianto sportivo che la storia ricordi. Allo stadio Heysel, pieno di speranza di vedere i bianconeri sollevare la coppa Campioni dopo tante finali perse, c’era anche il piacentino Nuccio Butteri, oggi speaker di Radio Sound95. Aveva 23 anni ed era partito con un amico. “Partimmo con un aereo da Bergamo. Eravamo in tanti su quel volo convinti che finalmente quell’anno avremmo vinto quella maledetta coppa. Sì, è vero, la coppa l’abbiamo vinta. Ma ti assicuro che non me ne è mai fregato nulla”.
Era una giornata di sole, ma che i presagi non fossero dei migliori Nuccio lo capì appena arrivato allo stadio. “Fuori appariva un impianto vecchio, fatiscente, già alla vista non adatto a ospitare una competizione di quella portata. Dentro le gradinate sembravano fatte di farina, si staccavano sassi con una facilità estrema. Tra un settore e l’altro c’erano delle barriere ridicole, che crollavano quasi alla vista. La cosa però incredibile è che il settore dove eravamo collocati, la curva, era stata suddivisa tra tifosi juventini da una parte (in realtà doveva essere riservata a un pubblico neutrale) e i temutissimi “hooligans” inglesi dall’altra. E poiché la barriera divisoria era ridicola… Ci piazzammo proprio nelle primissime gradinate per vedere meglio il campo”.
Erano circa le 19 quando allo stadio sembrò arrivare il terremoto: era l’ingresso degli hoolingans. “Avevano di tutto: manganelli, petardi, fumogeni, casse di birra. Ed erano soprattutto ubriachi e indiavolati. A parte qualche coro però sembrava non ci fossero grossi problemi. Quelli sono iniziati quando nel nostro settore Z sono iniziati a piovere i sassi. Gli inglesi staccavano pezzi di gradinata e li lanciavano contro gli juventini. Che poi hanno iniziato a rispondere. A quel punto per riparaci col mio amico ci siamo detti: proviamo a salire un po’ più in alto per evitare guai. Non potevamo ancora sapere che sarebbe stata la nostra salvezza”.
Poco dopo infatti gli inglesi iniziano la carica e l’Heysel diventa l’inferno. La rete di recinzione viene letteralmente strappata, un’orda di 4000 tifosi inglesi si proietta come bisonti inferociti dalla parte dei tifosi della Juventus. Un’onda devastante che iniziò a travolgere tutto e tutti. “Senza quasi che ce ne rendessimo conto – racconta Nuccio – è iniziata una lenta e inesorabile spinta verso il muro di cinta. La calca era incredibile. Non riuscivi a reagire e piano piano da sotto iniziavi a sentire le persone che cadevano e che cercavano di aggrapparsi alle tue gambe con le mani. Tu li sentivi, ma venivi trascinato e non potevi farci nulla. La spinta degli hooligans ci stava spostando. Era il caos: grida, strepitii, paura. La gente più vicina alla cinta della curva, quindi la parte esterna, cercava di mettersi in salvo scavalcandola. Quasi appesi a una sorta di istinto di sopravvivenza, capimmo che dovevamo in qualche modo salire sempre più in alto dove c’erano gli ingressi. E così venivamo spinti, ma riuscimmo a fare qualche gradino. Il fatto che ci trovassimo già piuttosto in alto ci permise di arrivare in qualche modo all’imbocco dell’uscita. Con il mio amico, senza dirci nulla, salimmo l’ultimo gradino e imboccammo le scale a perdifiato. Mentre correvamo sentimmo un boato: capimmo dopo che era il muro di cinta della curva che era crollato sotto la spinta della folla. L’unico nostro pensiero fu quello di scappare da quello stadio maledetto. E così in taxi raggiungemmo l’aeroporto di Ostenda dove era programmato il volo di ritorno. Ci arrivai senza la manica di una camicia e senza una scarpa”.
Quello di Ostenda non era più un aeroporto, ma un accampamento. “Sui monitor scorrevano immagini raccapriccianti. Non potevamo crederci. Da quel momento iniziarono ad arrivare passeggeri trafelati: chi a torso nudo, chi insanguinato. Surreale. Saremmo dovuti partire quella stessa notte, invece rimanemmo lì altre 24 ore. Il volo non poteva partire fino a quando non fossero arrivati tutti i passeggeri. Purtroppo sette di loro non arrivarono mai”.
“Quello che è accaduto non si può dimenticare – conclude Nuccio – Il risultato della partita non mi è mai interessato. Ho avuto la fortuna di assistere a Roma nel 1996 all’altra finale vinta dalla Juventus contro l’Ajax. Quella fu la vera festa. Il resto no, solo dolore. Ogni tanto, anche ora che ho 53 anni, ci penso ancora a quel giorno: penso di essere stato un miracolato”.