Quasi 50 anni di servizio, in pratica un quarto di tutta la storia dell'Arma dei Carabinieri. Una vita passata tra le strade, tra locali malfamati e fumosi a caccia di informazioni, tra notti in appostamento e interrogatori fiume. L'Arma ha salutato questa mattina, giovedì 23 aprile, il luogotenente dei carabinieri Pietro Santini in pensione dopo 46 anni di carriera. Originario di Lucca si arruolò nel 1969, mentre a Piacenza approdò nel 1988, ben 26 anni fa. Ha guidato poi il Nucleo Investigativo del Reparto Operativo dal 1998 al 2003. Nella caserma Paride Biselli di viale Beverora i suoi colleghi di ieri e di oggi, i magistrati della procura di Piacenza che hanno collaborato con lui e tanti amici hanno voluto tributare il giusto saluto a un simbolo della Benemerita. "Nessuno è indispensabile, è vero – ha detto il colonnello Filippo Fruttini, comandante provinciale dei carabinieri – ma l'esperienza di Santini mancherà, soprattutto guardando alle nuove leve che in lui trovavano un vero e proprio punto di riferimento". Una testimonianza affettuosa è stata regalata dal pm Antonio Colonna: "Un investigatore esemplare, affezionato ai vecchi metodi, al colloquio con le persone. Non guardava mai l'orologio, se c'era un caso da risolvere lavorava giorno e notte e anche nei momenti di difficoltà, in cui si aveva l'impressione di brancolare nel buio, lui non si arrendeva: 'In qualche modo faremo, intanto iniziamo' diceva senza perdersi mai d'animo. Ha davvero dato tanto a Piacenza, grazie al suo instancabile impegno è diventata nel tempo una città migliore".
Tanta emozione, ovviamente, anche da parte dello stesso Santini.
"Dopo 46 anni è normale che lo Stato ti dica 'Basta' però io avrei continuato, anzi se potessi ricomincerei e rifarei tutto dall'inizio anche perché il mio non l'ho mai considerato un lavoro, bensì una passione, uno stile di vita. Adesso è il momento della normale nostalgia, anche perché l'Arma è una famiglia".
Qualche rammarico?
"Non nessuno, rifarei tutto quello che ho fatto. Certo da un punto di vista prettamente tecnico ogni tanto capita di tornare con la mente a indagini del passato e riflettere con senso critico su quello che avrei potuto fare per arrivare prima alla soluzione del caso, sui miei errori, su alcune strategie che avrei dovuto adottare, ma questo fa parte del lavoro. In generale no, non rimpiango assolutamente nulla, anzi lascio soddisfatto sapendo di aver dato il mio contributo".
C'è un caso risolto che le ha dato particolare soddisfazione e che ricorda più volentieri?
"E' davvero difficile dirlo. Potrei dire il sequestro della stilista di Modena Lorella Signorino, avvenuto del 1982, caso che risolvemmo nel migliore dei modi con la liberazione della vittima e l'arresto dei rapitori. Però cito questo caso soprattutto perché fu il primo rapimento della mia carriera, in realtà tutti i casi che ho risolto mi hanno dato estrema soddisfazione e non è davvero possibile sceglierne alcuni a scapito di altri".
In 46 anni è cambiato notevolmente il metodo di indagine, soprattutto se pensiamo alla tecnologia.
"Si, è vero, e gli strumenti di oggi sono assolutamente indispensabili, si pensi all'analisi del DNA, alle intercettazioni ambientali, ai rilievi sui luoghi del delitto. Però a queste nuove tecnologie è importante affiancare la 'vecchia maniera', il parlare con le persone, la ricerca luogo per luogo, il vedere con i propri occhi. Questo non deve mancare: la gente deve conoscere e aver fiducia nel carabiniere".
Che consiglio si sente di dare a una giovane recluta?
"Non mollare mai. Quando ci si è stancati di aspettare si deve ricominciare da capo".