Dies Academicus, aumentano le iscrizioni alla Cattolica. Ospite Pagnoncelli

 Si è svolta questa mattina, venerdì 13 marzo, presso l’Università Cattolica di Piacenza, la cerimonia del Dies Academicus, tradizionale momento di incontro della comunità universitaria con le autorità e i rappresentanti della realtà locale.
Il programma ha visto alle 9.30, presso la Piazzetta della Facoltà di Economia e Giurisprudenza, la Celebrazione Eucaristica, che sarà presieduta da Sua Eccellenza Mons. Gianni Ambrosio, Vescovo della Diocesi di Piacenza-Bobbio.

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Alle 10.30 la cerimonia si è spostata presso l’Auditorium G. Mazzocchi per il discorso introduttivo del Rettore Franco Anelli e per i saluti del presidente dell’E.P.I.S. e della Provincia di Piacenza Francesco Rolleri e del sindaco di Piacenza Paolo Dosi.

La cerimonia è proseguita con la relazione di Nando Pagnoncelli, CEO IPSOS Italia, che è intervenuto su “L’università e la formazione del cittadino per il rilancio del Paese”, cui ha fatto seguito la Lectio della professoressa Simonetta Polenghi, Ordinario di Storia della pedagogia della facoltà di Scienze della formazione, sul tema “Il diritto dei minori all’educazione: il ruolo dell’Università”.

Ma il Dies Academicus è anche momento di bilanci per l’università cittadina. E a confermare l’ottimo andamento delle iscrizioni ci ha pensato il rettore, il piacentino Franco Anelli: “Sono andate bene nell’anno 2014-2015, rispetto alla diminuzione dei diplomati che si sono iscritti. Noi abbiamo aumetato le matricole e che i giovani ci scelgano è incoraggiante. La sede di Piacenza, poi, è aiutata dall’avere puntato sulla facoltà di Agraria e quindi sull’agroalimentare in grande sviluppo in questo periodo. E poi non dimentichiamo i risultati della Ricerca e gli esiti della formazione: i nostri laureati si confermano molto apprezzati dal mondo dell’impresa”. 

Pragmatico, come esige il suo ruolo, il Ceo di Ipsos, Nando Pagnoncelli: ”Sicuramente c’è un buon livello di soddisfazione per la formazione erogata dalle università, anche se bisogna contare che se l’aspettativa è solo per l’ingresso nel mondo del lavoro sappiamo che è un momento delicato ancorché in fase di miglioramento, come dicono i dati Istat”. Pagnoncelli ha poi commentato anche il disegno di legge approvato dal consiglio dei ministri sulla “Buona scuola”: “Su questo l’aspettativa è in rapido cambiamento, ma dalle riforme i cambiamenti saranno invece lenti, sul medio-lungho periodo. Bisogna avere la consapevolezza che riformare vuol dire mettersi in discussione e sarà necessaria la disponibilità da parte dei cittadini”. 

 

"L'università e la formazione del cittadino per il rilancio del Paese"

Intervento di Nando Pagnoncelli

Sappiamo tutti di vivere momenti complessi, difficili. Un periodo in cui i cambiamenti intorno a noi (e dentro di noi) si fanno vorticosi, veloci, spesso imprevedibili. Sono questi i sentimenti che appaiono dominare il nostro tempo. Definito dai grandi sociologi di volta in volta il tempo del rischio, il mondo dell’incertezza, la società liquida, che si conforma come l’acqua all’esistente. Tempi cupi si direbbe. Eppure, vorrei dire che non è (proprio) così. Vorrei dire che dobbiamo cogliere i segnali positivi che ci vengono dal nostro tempo, aperti come sempre al dialogo, lontani da demonizzazioni e da uno sguardo “passatista”. Cercherò di raccontare perché, dal mio punto di vista, questi possano essere anche tempi fecondi. E come l’Università e la formazione siano strategici per assecondare il meglio che questo contesto ci offre.
I segni dei cambiamenti di questi ultimi anni sembrano indicare due grandi direzioni insieme convergenti e contrastanti. Una è la direzione della mondializzazione, del mondo che entra dentro di noi, l’altra è la direzione dell’individualizzazione, che non vorrei chiamare, e cercherò di spiegare perché, individualismo. 
La mondializzazione. Per definirla userò il dizionario Treccani, che dice esattamente: “Nel linguaggio della politica, il fenomeno per cui determinati problemi politici, economici e sociali (inizialmente circoscritti ad alcune zone) acquistano una dimensione e una portata di risonanza mondiale, suscitando una presa di coscienza comune che spinge alla collaborazione generale nel tentativo di affrontarli e risolverli adeguatamente.” E, appunto, cercheremo di capire, tra le pieghe delle difficoltà che affrontiamo collettivamente e individualmente, se ci sia e dove sia questa presa di coscienza. Un sinonimo che usiamo largamente, direi prevalentemente, è globalizzazione. Il cui senso è più marcatamente economico. E’ l’unificazione dei mercati, la diffusione pervasiva delle tecnologie, l’apparente prevalere della tecnica il cui scopo, come direbbe Severino, è in sé stessa. Stiamo in un mondo che ci appare contemporaneamente vicino e lontano, chiaro e confuso, fraterno e minaccioso. Vicino e chiaro perché, grazie alla rete innanzitutto, possiamo (o crediamo di potere) conoscere tutto e tutto vedere, avendo il mondo a portata di click. Lontano e confuso, perché la massa di informazioni cui abbiamo accesso diventano indistinguibili, non gerarchiche, tanto che spesso finiamo per non riuscire ad immagazzinarle e rielaborarle. Fraterno perché senza dubbio le condizioni di vita dei molti sono migliorate, oggi viviamo più a lungo, abbiamo accesso a maggiori risorse. Per quanto naturalmente con le drammatiche diseguaglianze che tutti conosciamo. Minaccioso, perché ci appare un mondo su cui non esercitiamo potere, che ci ha nelle sue mani, che non riusciamo a controllare.
La prima e principale conseguenza di questa condizione è un processo di progressiva disintermediazione.
Internet cancella le distanze fisiche, presentifica il mondo e la sua storia rendendo tutto disponibile nello stesso momento (e quindi degerarchizzando le priorità e rendendo marginale se non inutile l’intermediazione degli intellettuali e degli esperti), consente a tutti, con poca spesa, di rapportarsi con la “propria voce” alle istituzioni e a chi detiene il potere: politico, economico, sociale, culturale, scientifico. Come dice Nadia Urbinati: “Quando l’ostacolo dell’interazione tra cittadini e istituzioni può essere superato grazie alla tecnologia informatica e a Internet, diventa più arduo giustificare il bisogno di rappresentanti e, soprattutto, l’atteggiamento nei loro confronti diventa più diffidente”. 
Tutti sanno tutto contemporaneamente o, meglio, si illudono di sapere tutto e comunque possono accedere in tempo reale a qualunque informazione sia necessaria. Nulla ci è ignoto, e in questo tutto è l’individuo ad essere centro fondante. Ciò comporta una riorganizzazione complessiva che ridisloca le forze di intermediazione rendendole non tanto inutili quanto accessorie.
Se Internet ne è l’aspetto più evidente, la disintermediazione ha anche ragioni più profonde. Il tessuto complessivo della rappresentanza nel nostro paese ma più in generale nei paesi sviluppati, si è profondamente modificato. La possente trasformazione post-rivoluzione industriale ha prodotto il diffondersi di un esteso, talvolta caotico e magmatico, ceto medio. Le classi sociali e, insieme, il loro bagaglio di valori ed etica, si sono progressivamente sfaldate. Ed è diventato difficile, quando non impossibile, rappresentare interessi, bisogni ed ideali di personalità complesse, di identità multiple, di io patchwork. 
Oggi è complicato individuare un fondamento univoco dell’identità sociale. Di volta in volta siamo lavoratori e consumatori, risparmiatori e proprietari, elettori e spettatori …
Le agenzie di organizzazione del consenso e di rappresentazione dei bisogni, capaci di trasformare i problemi individuali in istanze collettive, sono oramai al lumicino. Le forze intermedie che hanno rappresentato, per certi versi e per certe aree del paese, l’ossatura del sistema democratico post bellico, oggi si vanno sempre più trasformando in strutture di servizio che erogano prestazioni (mi riferisco ai sindacati o alle molte istituzioni di rappresentanza degli interessi). Spesso la lettura di questi fenomeni ha una connotazione morale. La destrutturazione del collettivo, il progressivo scivolare del noi nell’io è valutato di per sé, un male. Certo si tratta di una deriva insidiosa e carica di pericoli. Ma guardiamo a cosa ha significato il noi sociale e politico nel Novecento e spesso troveremo fondamenti preoccupanti. E’ sovente il noi dei regimi totalitari. Remo Bodei ha spiegato bene come in molti casi questo noi sia massificazione, omologazione della coscienza, incardinamento dell’io nel noi dello stato etico. E quindi a questo noi bisogna guardare con un certo sospetto. In questo senso il processo di individualizzazione che vediamo imporsi ha un risvolto di indubbio interesse. E senza dubbio è questo l’humus, il contesto, nel quale ci troviamo a nuotare e che obbligatoriamente dobbiamo affrontare, che ci piaccia o no. E questo tentativo di spiegare il fenomeno è, in fondo, una ricerca che ha profonde radici. Basti pensare al personalismo comunitarista di Mounier, alla necessità di trovare una terza via contro i totalitarismi e l’inaridimento capitalistico. 
Un altro concetto vorrei introdurre, quello di autodirezione: la caduta dei centri egemonici (questo vale per la politica, per la rappresentanza sociale, ma anche per i brand) fa sì che, proprio come nella rete, l’io diventi ganglio, snodo, centro. Da questo centro costruisco le mie relazioni, da questo snodo sviluppo i miei rapporti. La mia richiesta di rappresentanza, l’espressione dei miei bisogni, la manifestazione dei miei interessi, passa attraverso un’esplicitazione che, facendo centro sull’io (e quindi disintermediata) richiede una risposta non predeterminata, non ideologica ma effettuale. Questo sembra accomunare la scommessa del nuovo consumatore, le esigenze del nuovo cittadino, le risposte delle aziende e dei centri di rappresentanza. Tutti richiesti di essere altro da quello che sono stati sinora. La domanda di un tempo, essere ascoltati per riorganizzare le richieste del singolo all’interno di un contesto di valori e prospettive condivise, lascia spazio alla richiesta di risoluzione del problema immediato. Per le organizzazioni sindacali e di rappresentanza sociale è una sorta di ritorno alle condizioni primigenie del mutualismo, non più mediato dalla secolare storia dell’organizzazione degli interessi e dei bisogni intorno ad una “idea” (ideologia). Ed è proprio questo che richiede un ripensamento radicale del ruolo e delle narrazioni delle forze intermedie.
Un tema molto simile riguarda la politica. La definizione dei campi, che dall’ingresso nella cosiddetta Seconda Repubblica si componeva in termini diadici, valoriali, per qualcuno antropologici, è a sua volta franata insieme alla chiusura del ventennio. Si compie così una sorta di disallineamento ideologico, la fine dei partiti di massa e dei suoi epigoni e lo sfarinarsi delle appartenenze, sempre più labili. Anche qui il tema della disintermediazione risulta centrale. 
La necessità di un leader che incarna, rappresenta e presenta valori e programmi, è evidente e forse non abbisogna di dati a sostegno. Questo clima rafforza l’atteggiamento di “direttismo”, cioè quella ricerca del superamento dei passaggi intermedi nella relazione diretta con i centri di decisione e, quindi, con il leader. Ma ci sono due conseguenze che vanno valutate. La prima è la percezione della inutilità, o almeno dell’eccesso di barocchismo, della democrazia rappresentativa, che si basa sul bilanciamento e l’equilibrio dei poteri, sui pesi e contrappesi che difendono dalla tirannia della maggioranza e che quindi depotenziano l’idea di legittimità fondata esclusivamente sull’investitura popolare. Nel direttismo c’è quindi un potenziale orientamento “dispotico”. L’altra conseguenza sta nel porre all’ordine del giorno una rivisitazione degli strumenti deliberativi: l’occasione creata dalla necessità di rivedere, insieme alla legge elettorale, anche la struttura dei poteri e delle loro forme (abolizione o trasformazione del Senato, abolizione delle province, revisione dell’assetto delle istituzioni locali attraverso la creazione delle aree metropolitane, l’accorpamento dei piccoli comuni, la gestione integrata dei servizi, sino ad arrivare anche alle ipotesi di revisione della struttura e delle competenze regionali), questa occasione diventa anche il momento in cui si pensa sia possibile ridefinire la struttura e l’assetto dei poteri repubblicani. Si tratta insomma di un’occasione per ripensare le forme attraverso cui la democrazia si esprime.  Naturalmente in questa trasformazione “direttista” ha un ruolo strategico il web. Internet è il luogo principe della disintermediazione, dove la politica è peer to peer. Nella convinzione che il rapporto diretto, immediato cioè non mediato, sia strumento di trasparenza, di chiarezza, di controllo (è la democrazia del monitoraggio). Ma su questo tornerò più avanti. Anche il ruolo dei media è stato rilevante nel riposizionare il senso comune in termini leaderistici. E’ vero che si agiva su un terreno fertile come quello italiano, ma comunque l’arena politica si è sempre più trasferita nei media, uscendo dalle sue sedi istituzionali (basti pensare al ruolo di terza camera attribuito a Porta a Porta).Il leader politico oggi fonda parte importante del suo potere sull’immagine mediatica che offre agli elettori. In particolar modo la televisione è stato il mezzo che più di qualsiasi altro ha inciso profondamente sulla politica e sui politici. La capacità di essere in tv, di usarla e di non subirla, è centrale. E centrale è rimasto il ruolo della tv anche nelle campagne recenti. Certo, è cresciuta l’influenza dei social e della rete. Ma la tv è imprescindibile. E quindi la politica si fa spettacolo. In questo contesto l’aspetto emozionale rappresenta una leva importante per l’acquisizione di consenso. La vita del politico diventa una messa in scena. Il leader è uno di noi, quindi la sua vita privata e la sua vita pubblica si legano inestricabilmente. Non c’è più separazione tra politico e privato. Ciò umanizza il leader ma decontestualizza la politica. Che diventa racconto, storia, messa in scena. In questo quadro il ruolo dei partiti si è molto ridimensionato rispetto al passato. La trasformazione dei partiti è funzionale alla crescita di centralità del leader, che ha comunque bisogno di una cornice credibile, sia pur sempre più ridotta. E’ il processo magistralmente evidenziato da Bernard Manin quando parla di “democrazia del pubblico”. Il partito è percepito sempre meno come luogo di scambio ed elaborazione politica ed è sempre più orientato ad assumere la funzione di contenitore simbolico a supporto del leader. Tutto questo provoca profonde differenze rispetto al passato. Intanto riduce gli spazi di discussione e deliberazione. Le scelte sono sempre più affidate all’esecutivo (basti pensare al accresciuto ricorso alla decretazione d’urgenza), con una riduzione del ruolo del Parlamento ma anche, negli enti locali, dei consigli comunali. La stessa scelta dei rappresentanti è complessa, affidata a liste bloccate in un caso, nell’altro, come nelle elezioni primarie, ad una partecipazione indiscriminata che non pone paletti di orientamento elettorale, iscrizione ad un partito, ecc. provocando in qualche caso preoccupanti fenomeni di inquinamento. E infine si riducono quegli spazi di mediazione che per definizione debbono rimanere coperti da riserbo, riservati. Oggi l’idea dominante degli elettori è che il politico debba fare tutto in pubblico, debba essere sempre visibile e controllabile. E’ la “democrazia del monitoraggio” come dicevo poc’anzi. Ciò porta anche alla soppressione del confine tra vita pubblica e vita privata, al fatto che un uomo politico sia continuamente sotto il faro dell’opinione pubblica (d’altronde già Plutarco diceva con notevole acume che la moglie di Cesare non solo deve essere onesta ma anche sembrare onesta). In questo senso il politico e l’uomo si identificano, quasi che la funzione fosse l’essenza intima dell’identità. Ciò comporta anche il fatto che, privato del suo status, esso diventi “uno di noi” (ma un po’ peggio, essendo un politico) e che come tale possa essere giudicato, immediatamente, superficialmente e senza sconti. Il rischio è che, come nella storia abbiamo visto più volte, questo atteggiamento porti con sé pesanti distorsioni della corretta vita democratica e del suo ruolo di mediazione per il raggiungimento dei migliori risultati.
Allora abbiamo detto: mondializzazione, individualizzazione, disintermediazione, storytelling. 
Aggiungerei ancora due temi: la precarizzazione e l’adeguatezza delle élite.
Con precarizzazione intendo qualcosa più della precarietà. Mi riferisco ad un sentimento di fondo che ci fa guardare alle nostre vite come non più sicure, destrutturate, di cui non si sa con relativa sicurezza che cosa succederà. È la paura del domani. Che va di pari passo con lo smantellamento progressivo del sistema di welfare che ha caratterizzato l’Europa post bellica. Uno dei fondamenti delle nostre certezze era il sistema pensionistico, in particolare per gli italiani. La riforma delle pensioni è stata per tutti la certificazione di questo stato di insicurezza diffusa. Questa precarizzazione si manifesta innanzitutto fra i giovani, i più colpiti dalla crisi delle certezze e naturalmente dalla crisi economica e dalla trasformazione profonda del mercato del lavoro. I giovani di oggi hanno molti strumenti in più rispetto al passato ed un più vasto accesso ad informazioni e opportunità. Hanno anche un bagaglio culturale più rilevante rispetto alle generazioni precedenti. Di solito hanno studiato più dei padri e dei nonni. Ci sono quindi le condizioni per costruire un percorso di autonomia e crescita personale. In realtà i dati ci dicono che in Italia in particolare si assiste ad una condizione di stretta relazione del giovane con la propria famiglia che porta ad una condizione di dipendenza di lungo periodo con un protrarsi della permanenza in famiglia (L’Istat stima nel 61% i giovani tra 18 e 34 anni che vivono ancora nella famiglia d’origine). Sono fenomeni ampiamente noti e su cui non vale la pena di soffermarsi nel dettaglio. E’ utile però tenere a mente il fatto che i giovani hanno insieme maggiori potenzialità e maggiori rischi. La crisi economica ha chiuso per molti le prospettive future, spesso rendendo cronica la condizione di precarizzazione dell’esistenza come avviene ad esempio per una parte dei giovani denominati NEET (Not in education, employment or training). Una parte di essi ha oramai rinunciato anche alla ricerca di un lavoro ed è diventata una quota fissa nel calcolo del tasso di disoccupazione. Il disincanto, per una quota di giovani, sta diventando rinuncia. Anche perché, come dicevo, i giovani non hanno al momento rappresentanti né, forse, li stanno davvero cercando. 
L’ultimo tema, prima di cercare di arrivare a qualche conclusione, è relativo all’adeguatezza delle classi dirigenti di questo paese. Notoriamente il concetto di classe dirigente è aleatorio, difficile da definire con chiarezza. Tuttavia accettiamo questa approssimazione. Accompagnerei il termine classe dirigente a quello di élite, forse più calzante per la storia del nostro paese. Dico questo perché alcuni dei momenti fondativi della nostra storia, e penso almeno al Risorgimento e alla Resistenza, furono il prodotto di élite relativamente ristrette. In generale direi che una classe dirigente è quella élite che fa proprio il principio di responsabilità, cioè che assume su di sé l’obbligo collettivo della guida del sistema e se ne fa carico. Nel nostro paese sembra evidente che si stia manifestando una diffusa inadeguatezza della classe dirigente. Non solo della politica. Ne abbiamo già parlato e non ci torno sopra. Ma anche delle élite economiche. Che stanno lavorando poco per creare valore, che spesso preferiscono dirottare i capitali sulle posizioni di rendita, che non reinvestono o comunque non reinvestono a sufficienza. Lo stesso possiamo dire dell’amministrazione pubblica, che è per tutti gli stati un nerbo portante. Oggi prevale l’idea che la burocrazia sia un peso, che sia meglio liberarsene, che forse se ne può fare a meno. E’ vero che la lentezza e l’inefficienza della burocrazia nel nostro paese sono drammatiche. Ma è anche vero che non possiamo pensare di eliminarla. Come diceva Max Weber: “L’amministrazione burocratica è la più razionale dal punto di vista tecnico-formale ed essa è oggi per i bisogni dell’amministrazione di massa semplicemente inevitabile. C’è soltanto la scelta tra ‘burocratizzazione’ e ‘dilettantismo’ dell’amministrazione”. Ma, detto questo, è fuori dubbio che la burocrazia italiana, che non ha la storia e gli strumenti di altri grandi stati e penso ad esempio alla Francia e alla Germania, ha un grande problema culturale. Da una parte rivedere la preminenza della cultura giuridico-formalistica integrandola ad una cultura mirata al raggiungimento degli obiettivi e quindi alla capacità di valutare i risultati. Questo è parte della moderna etica della responsabilità. Solo valutando i risultati, cioè le effettive conseguenze delle proprie azioni, anche le conseguenze inintenzionali, si è in grado di strutturare sempre meglio e in modo sempre più efficace il proprio intervento. Dall’altra parte la burocrazia deve sempre più aprirsi alla mondializzazione, immergersi nel mondo interconnesso. Molta parte della nostra burocrazia sembra avere una cultura domestica, asfittica, chiusa nel cortile di casa. È uno dei fattori che ostacolano la ripresa del nostro paese. Ancora, va riflettuto sul ruolo della finanza e dei suoi esponenti, del credito e della sua missione fondamentale nella crescita e nella tenuta del paese. E’ indubbio che qui qualcosa è successo. In particolare la finanziarizzazione dell’economia, che pure è un meccanismo necessario allo sviluppo e alla crescita, ha prodotto progressivamente il prevalere dell’interesse immediato rispetto allo scopo della crescita di lungo periodo. Lasciando sul campo morti e macerie. Anche qui sembra necessario tornare al principio della responsabilità. Anche se è difficile trovare, dopo l’”eclissi della borghesia” per citare De Rita, un soggetto in grado di assumersi questo compito. E infine va sottolineato l’invecchiamento delle élite e il mancato ricambio. Cosa che rimane vera per economia e burocrazia, molto meno per la politica che invece ha effettuato un rinnovamento profondo.
Finora abbiamo detto del molto che non va. Ma, dicevo in apertura, dobbiamo essere in grado anche di cogliere i segnali deboli, che poi forse proprio deboli non sono, che preannunciano cambiamenti. Non sederci sulla lode dei tempi andati, ma cercare strenuamente gli strumenti di miglioramento del presente.

Ricominciamo dalla disintermediazione. La disintermediazione, che abbiamo già visto prepotentemente emergere come un atteggiamento sempre più radicato in termini di rappresentanza politica e sociale, diventa anche una realtà nel comportamento del consumatore, sempre più centrato sulla ricerca di una relazione diretta. Utilizzando in questo percorso la creazione di reti di rappresentanza che hanno caratteristiche effimere (come le comunità virtuali sulla rete) ma contemporaneamente un impatto rilevante ad esempio sulle aziende ed un’efficacia virale nella costruzione di relazioni dirette. E questo favorisce la ricerca di nuove ed efficienti soluzioni che nascono dalla spontanea collaborazione con gli altri per portare avanti un progetto per beneficiare dell’accesso a beni, servizi o esperienze. E’ un approccio pragmatico: le persone fanno cose insieme, in modo organizzato, ma liberi da qualunque ideologia, per ottenere soluzioni veloci e concrete. E’ la vittoria del principio “da persona-a-persona” anche nella relazione con le marche (per vendere cose, noleggiarle, scambiarle…), senza intermediari. Accettando il fatto che queste relazioni, queste comunità, queste unioni per affrontare i problemi che di volta in volta si pongono sono spesso aleatorie, degradano rapidamente, non diventano strutture stabili ed organizzate se non raramente.
Qualcosa di simile avviene nel mondo politico/sociale. Pensiamo ad esempio alla campagna referendaria del 2011 per i beni comuni. Al di là delle opinioni che ciascuno di noi ha sull’argomento, abbiamo visto una possente mobilitazione giovanile, con un ruolo del web che da virtuale diventa reale, portando nelle piazze e al voto una parte importante di popolazione. E’ la struttura reticolare che insidia la struttura verticale. Enfatizzo troppo? Forse, ma dall’altra parte penso che stiamo in una fase di riorganizzazione, l’ho detto più volte, delle forme della rappresentanza. Per stare alla politica, e qui riprendo alcune tesi di Marco Revelli, il controllo quasi monopolistico dello spazio pubblico esercitato dai partiti del secolo scorso è finito. In questo contesto il potere mediatico ha certo un ruolo prevalente capace spesso di determinare il perimetro della rappresentanza. E dall’altro il potere economico e finanziario ha la capacità di determinare scelte e di governare percorsi. Ma la crisi del potere della politica che si accompagna alla scomparsa degli stati nazione, non comporta necessariamente una resa. Anche qui abbiamo visto un possibile ruolo del web e vediamo da un lato un diffondersi reticolare di informazioni e scambi e dall’altro lato vediamo forze che si muovono dal basso, spazi di autoorganizzazione, spesso alimentati dai new media. Se quel che resta della politica riesce ad agganciare queste spinte e a valorizzarle rivedendo profondamente il ruolo dei vecchi partiti, si apriranno spazi di ripresa.
E poi i giovani. Abbiamo visto prima le profonde difficoltà della condizione giovanile e il disincanto con cui i giovani guardano alla propria condizione. 
Ma il disincanto sa anche portare a reazioni attive e proattive, a quello che potremmo definire una sorta di riformismo adattivo. I giovani vedono il paese andare in una direzione sbagliata molto più di quanto pensino le generazioni precedenti, ma al contempo sono più ottimisti per la loro situazione di qui a qualche anno, ritenendo molto più della media che migliorerà e molto meno che peggiorerà. E’ solo un prodotto dell’incoscienza dell’età, un macroscopico fenomeno di strabismo? Forse no, piuttosto forse uno sforzo razionale e attivo per non adattarsi al peggio.
La società è vista come un “luogo” malato, dove accadono cose ingiuste (corruzione, istituzioni statiche e polverose, sperequazione), una giungla nella quale è difficile districarsi da soli e senza appoggi, attraversata da radicati pregiudizi contro i giovani. Questa percezione si amplifica in una situazione critica come l’attuale, ma non produce necessariamente comportamenti di rinuncia. La crisi non è solo economica, è qualcosa di più profondo: è morale, è esistenziale (d’altronde la “crisi” è passaggio e per i giovani è anche qualcosa di interiore, momento di cambiamento  psico-fisico che trova un suo corrispettivo nella “crisi” esteriore che si registra nella società andando a sedimentare un profondo vissuto di smarrimento). La crisi è quindi anche un momento positivo, che terrorizza assai meno il giovane che deve costruirsi rispetto a chi ha già costruito il proprio luogo e teme di perderlo. E pensando alla propria condizione i giovani hanno sviluppato un’idea della felicità “flessibile”. Hanno maturato un atteggiamento adattivo e difensivo verso il clima depressivo che li circonda e quindi la felicità oggi, oltre ad essere emozione e creazione (progetto) può anche essere frutto di un compromesso sostenibile. Questi atteggiamenti mi sembrano schiudere l’epoca post-ideologica. Sono tracce di una possibile uscita dal Novecento. La crisi economica protratta che da stasi è diventata recessione ha determinato una contrazione dei consumi ed una ridefinizione della scala dei valori in cui i valori tradizionali acquistano sempre maggior rilevanza. Non che l’avere o il denaro abbia perso completamente d’importanza, ma è divenuto funzionale alla possibilità di rispondere a bisogni fisiologici, di sicurezza ed appartenenza. Bisogni però che non sembrano provocare una chiusura in sé, un semplice atteggiamento di rifiuto e riparo (che pure c’è), ma anche una risposta che sta tra l’adattarsi e il trasformare l’esistente. Trasformazione che però non trova (e forse non vuole trovare) i veicoli classici del Novecento (tra tutti i partiti) ma che cerca modi diversi sia pur non necessariamente alternativi. La fine delle ideologie e dell’idea di una trasformazione radicale non annulla tanto gli strumenti tradizionali ma li trasforma. Diventano veicoli, utili quando serve, da lasciare quando non necessari. Veicoli affiancati ad altri (la comunità dei pari, il web …) senza un primato. Quando si riferiscono al mondo giovanile, le istituzioni ci parlano però prevalentemente di una generazione apatica, incapace di crearsi la propria felicità, che ha perso ogni interesse. I mezzi di comunicazione danno eco a queste voci contribuendo a creare l’immagine di una generazione paralizzata dalla noia, incapace di costruirsi la propria felicità. Se si guarda un po’ più a fondo, si scopre che lo stereotipo delineato da media e istituzioni è lontano da quanto accade nella realtà: i giovani d’oggi hanno due volti differenti che mostrano a seconda delle entità con cui entrano in interazione. Tutto ciò accade perché i giovani sono esposti ad una realtà bipolare: il contesto informale e quello istituzionale con cui si confrontano sono molto diversi tra loro. La realtà che li circonda nella dimensione più quotidiana e informale è in continua e veloce evoluzione, (grazie anche al progresso scientifico e tecnologico che influiscono sensibilmente sulle interazioni sociali). I giovani d’oggi sono figli di questo dinamismo incalzante, l’hanno fatto proprio e riescono a creare interazioni virtuose soprattutto con entità dinamiche quanto loro (i pari, la tecnologia, il mondo dei consumi, ecc.). La loro vera indole è quella di individui flessibili capaci di adattarsi al cambiamento. Non riescono quindi a riconoscersi nelle istituzioni, piuttosto statiche e sempre uguali a se stesse, che adottano un linguaggio ed una modalità di interazione lontane da quello che i giovani hanno maturato. Essi pertanto erigono una sorta di barriera e attivano un comportamento di chiusura che contribuisce ad alimentare lo stereotipo del mondo giovanile dipinto appunto da media e politica. Quindi i giovani, all’epoca della crisi, sono perfettamente in grado di mettere in atto comportamenti adattivi e, lo abbiamo visto, di trasformazione del mondo che li circonda. Con altri veicoli, con altri modi rispetto a quelli che abbiamo conosciuti. Si tratta di intercettarli e valorizzarli.
E quindi siamo al punto finale. L’Università e il sistema di formazione sapranno essere, al di là dei loro compiti istituzionali, veicolo di relazione e mobilitazione delle energie tutto sommato neanche troppo sopite dei nostri giovani?  
Il tema è indubbiamente complesso. Le attese di formazione da parte di giovani e famiglie sono prevalentemente concentrate sull’acquisizione di skills tecniche, di competenze che favoriscano l’ingresso nel mondo del lavoro. E’ naturale che sia così. Siamo alla fine del percorso di formazione della persona, che si aspetta di acquisire le competenze per inserirsi definitivamente nella società e costruirsi un futuro. Ma questa domanda prevalente di acquisizione di competenze tecniche, misurabili, quantificabili è una richiesta che le famiglie formulano per i propri figli sin dall’infanzia. Il processo cui stiamo assistendo, che si inscrive nella tendenza individualizzante che precedente abbiamo evidenziato, fa sì che le famiglie ritirino alle istituzioni e alle agenzie di formazione la delega educativa. L’accento è posto sul fare e non sull’essere. Si richiede che il proprio figlio acquisisca competenze specifiche, non che sia aiutato a diventare cittadino critico, responsabie, consapevole del proprio ruolo sociale. E’ ciò che è emerso, per fare un esempio recente, da una indagine sugli oratori lombardi, da poco pubblicata. Il fare è rassicurante per le famiglie: i luoghi che propongono l’acquisizione di abilità e competenze sono strutturati, i percorsi sono valutabili, l’apprendimento è misurabile. Al contrario un percorso di crescita critica è più ansiogeno perché fornisce minori certezze, implica la fatica di capire, di stare nell’incertezza del risultato, dell’attendere l’evolversi degli eventi e anche, ultimo non in ordine di importanza, la capacità di riconoscere il risultato. In sostanza le famiglie arrogano a sé il compito di definire quale debba essere il quadro valoriale da consegnare al bambino, quale la socialità cui il bambino accede, mentre ai centri di formazione si chiede solo un contributo tecnico. Ciò significa che l’Università e in generale la formazione deve assumere su di sé la necessità di contribuire, sempre, anche ai più alti livelli, alla formazione di cittadini oltre che di esperti. Di persone, appunto, come dicevo precedentemente. 
In questo senso ritengo essenziale che l’Università assuma un sempre più marcato ed ampio ruolo culturale e formativo. Accettando una sfida strategica, relativa alla necessità educativa rappresentata dal tema della cittadinanza e dal ruolo socialmente responsabile che l’essere cittadini comporta. E per questo mi sembra utile che crescano le relazioni dell’Università con la società, rivolgendosi non solo al mondo delle aziende, per quanto ciò sia indubbiamente importante, ma ad una molteplicità di stakeholders. Penso al mondo istituzionale, ai media, al mondo dell’associazionismo e del terzo settore. 
Negli ultimi anni sono fortemente cresciuti e consolidati i rapporti tra le Università e il mondo delle imprese. Sono rapporti fondamentali che contribuiscono strategicamente a creare sinergie tra formazione e lavoro, impostando un’offerta formativa sempre più coerente e vicina alle effettive necessità del mondo produttivo.
Tutto questo, insieme ai crescenti processi di internazionalizzazione degli atenei e di interconnessione dei saperi  è fondamentale ma non sufficiente. Innanzitutto per una ragione banale. In un mondo in continua e vorticosa evoluzione, non è solo importante saper come fare, acquisire competenze tecniche, ma diventa forse ancora più importante imparare ad imparare. Essere in grado cioè di appropriarsi degli strumenti per formarsi, aggiornarsi. Ma anche per una ragione più ampia: un buon cittadino e un buon lavoratore, non sono dei meri esecutori. Nelle aziende è sempre più evidente e crescente il bisogno di collaboratori capaci di innovare, di esercitare il pensiero laterale, di modificare i propri punti di vista. E questa attitudine si conquista sapendo non solo come si fa ma perché lo si fa. Ci vuole, se volete, una sorta di “filosofia del fare”, una strumentazione culturale che consenta ai nostri studenti di interrogarsi sempre su ciò che si sta realizzando.
Chiudo riprendendo una citazione che mi è sembrata molto pertinente riportata dal rettore Anelli nel discorso di inaugurazione dell’anno accademico 2013/2014. E’ un passo di Martha Nussbaum: “Le nazioni sono sempre più attratte dall’idea del profitto: esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare a sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone”. Questa è la sfida ineludibile per il sistema universitario, questa è la sfida ineludibile per il nostro ateneo. So che sapremo affrontarla, credo che sapremo vincerla.

DIES ACADEMICUS

Saluto del Rettore, professor Franco Anelli

A tutti rivolgo il mio più cordiale saluto e quello di tutta l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Con grande piacere porto anche il saluto di Sua Eminenza, il Cardinal Angelo Scola, Presidente dell’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori.

    Ringrazio la Prof.ssa Simonetta Polenghi e il Prof. Nando Pagnoncelli per avere accolto l’invito a intervenire all’odierno Dies Academicus per trattare, facendo dialogare metodologie e approcci diversi e complementari, temi che investono la missione educativa dell’università e il potenziale contributo di questa alla promozione dello sviluppo del nostro Paese.

1. Gli argomenti scelti per la giornata di oggi pongono all’attenzione l’università come istituzione educativa. In un articolo intitolato “L’educazione dei giovani fine precipuo della Università”, Padre Gemelli, richiamando le origini delle università europee, e di quelle cattoliche in particolare, ricorda che «la Chiesa ha concepito, ha costruito, ha fatto sviluppare le Università come organi di educazione della gioventù» . La centralità dell’impegno educativo costituisce servizio all’edificazione della persona e contributo alla società: si tratta di  «dare alla personalità del giovane un pieno sviluppo affinché, giunto il suo sapere allo stato adulto, possa assolvere i compiti che la società gli chiederà all’indomani della laurea.». 
    Così riconosciuto il fine dell’Università, non poteva non discenderne l’esigenza di formare direttamente nuovi educatori e di sostenere tale compito con una robusta attività di ricerca scientifica in ambito pedagogico e nei settori affini. Per rispondere a questa vocazione che sono nati e si sono evoluti, in particolare, la Facoltà di Scienze della Formazione (presente con i propri corsi anche in questa sede piacentina) e il Dipartimento di Pedagogia. Realtà che assicurano la qualificata presenza dell’Ateneo nel dibattito sulla scienza dell’educare e nella prassi della formazione delle nuove generazioni di educatori. “Ci vuole l’educazione e ci vogliono maestri capaci di insegnare” è la lapidaria espressione che sintetizza il rapporto del Comitato per il progetto culturale della CEI del 2010, dal titolo “La sfida educativa”. 

2. Una “sfida” ben chiara ai padri conciliari che ne fecero oggetto della dichiarazione Gravissimum Educationis (anzi, per ricordare interamente l’inizio del documento “gravissimum educations momentum in vita hominis”) della quale ricorre il cinquantesimo anniversario. 
Intervenendo pochi giorni fa presso la sede di Milano, S.E. Mons. Vincenzo Zani (Sottosegretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica) ne ha citato un brano: «Tutti gli uomini… in forza della loro dignità di persona, hanno il diritto inalienabile a un’educazione che risponda al proprio fine, alla cultura e tradizioni del proprio paese e insieme aperta a una fraterna convivenza con gli altri popoli al fine di favorire la vera unità e la pace sulla terra». Già mezzo secolo fa la Chiesa definì l’accesso all’educazione un “diritto inalienabile”, la cui mancata attuazione ferisce la dignità degli individui che ne sono privati e, nel contempo, toglie alla società un bene prezioso e insostituibile. 
Il richiamo della dimensione relazionale e affettiva del processo educativo rinvia in primo luogo alla famiglia. La Dichiarazione universale dei diritti umani sancisce che i genitori hanno “priorità” nella scelta dell’istruzione da impartire ai propri figli (art. 26.3); affermazione importante, ma che a ben vedere appresta una garanzia doverosa e minimale che non attinge al fondo del ruolo educativo dei genitori, il quale non si esaurisce in una “precedenza” nell’operare una “scelta” in favore di una determinata azione educativa, eventualmente poi realizzata da altri, ma impone l’assunzione in prima persona di una insopprimibile funzione di sviluppo della personalità dei figli. Una  funzione che non può essere sottratta ai genitori, ma che neppure può da essi venir demandata integralmente ad altri.
L’educazione, la crescita morale e lo sviluppo intellettuale e culturale della persona sono il risultato del converre di plurime forze: dell’azione dei genitori e delle istituzioni, chiamate, queste ultime, ad assicurare strutture didattiche efficienti e professionalmente qualificate, alle quali possa rivolgersi la “scelta” dei genitori. 
In una società come la nostra, infatti, il “diritto all’educazione” si gioca anche sul piano del pluralismo dei modelli educativi quale premessa per l’esercizio di un’autentica “libertà di educazione”,  il cui esercizio non dovrebbe essere condizionato da fattori esterni, quali le disponibilità economiche delle famiglie.

3. Il processo educativo è lungo. L’essere umano è un frutto a lenta maturazione, e il processo deve essere attentamente seguito in ogni sua fase. E’ questo il nesso che segna la continuità di fondo tra i due contributi che ci accingiamo ad ascoltare.
Garantire e tutelare il diritto dei minori all’educazione e il diritto-dovere delle famiglie di provvedervi è infatti una premessa fondamentale affinché, con il successivo contributo del sistema dell’alta formazione universitaria, possano crescere e maturare nuove generazioni di cittadini liberi, responsabili e preparati. Nuove leve di cittadini che però – e qui si apre un enorme spazio di responsabilità che è principalmente, seppure non esclusivamente, della politica – devono essere messe nelle condizioni di contribuire direttamente, con il patrimonio di conoscenze e di competenze acquisite, al bene del Paese. È noto che, purtroppo, la situazione, sotto questo profilo, resta grave, e se l’elevato tasso di disoccupazione giovanile può essere considerato uno degli effetti più duri della crisi esplosa nel biennio 2007-2008, questo stesso dato oggi rappresenta una delle cause che più ostacolano la rinascita della società italiana e la ripartenza dell’economia nazionale. Dall’interno delle università si ha da tempo l’impressione che gli studenti siano fortemente condizionati dal timore di vedere deluse le loro aspirazioni. Un’impressione che trova riscontro in alcuni dei dati raccolti ed elaborati dal “Rapporto Giovani”, l’approfondita ricerca empirica promossa dall’Istituto Toniolo e realizzata da un pool di docenti e ricercatori della Cattolica (dei quali fa parte anche il Prof. Pagnoncelli). Tale indagine rivela che l’85% dei 5.000 intervistati (tra i 19 e i 32 anni) ritiene l’Italia un luogo in cui le opportunità di lavoro legate alle proprie competenze sono scarse o limitate. Un dato allarmante, che avvicina il rischio di perdere, negli anni a venire, molte preziose e insostituibili risorse umane e intellettuali di cui dispone il nostro Paese. Intervenendo lo scorso 30 gennaio presso la nostra Sede di Roma il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha affermato: «Le difficoltà di accesso al mercato del lavoro, in particolare per i più giovani, così come l’allungamento dei periodi di disoccupazione comportano rischi di depauperamento del capitale umano che in ultima battuta potrebbero indurre una riduzione del tasso di crescita del prodotto “potenziale”». Ed è, questa, forse la più seria minaccia alla sostenibilità, nel tempo a venire, del nostro sistema economico e sociale.
La carenza di prospettive rappresenta la barriera materiale e psicologica contro cui troppo spesso si infrangono i sacrifici di molti ragazzi, delle loro famiglie e anche di quelle istituzioni educative (scuole e università) che si sforzano di svolgere nel miglior modo possibile il proprio compito. Se è vero, infatti, che il sistema scolastico e il sistema dell’alta formazione italiani possono migliorare sotto vari profili, è esagerato (e in alcuni casi pretestuoso) indicare in essi i principali responsabili del declino italiano e del deficit di competitività che caratterizza il nostro sistema-paese. Questo assunto, che tende a generalizzare casi effettivamente problematici, sembra essere smentito proprio dal successo riscontrato dai sempre più numerosi italiani che, formatisi – quanto meno a livello di base, ma spesso anche a livello specialistico e dottorale – nelle scuole e negli Atenei italiani, oggi lavorano o fanno ricerca all’estero, sovente in contesti molto competitivi (multinazionali, istituti di ricerca, istituzioni sovranazionali e transnazionali, start up innovative…). Anche sul piano della ricerca scientifica universitaria, pur investendo da anni meno della media europea, l’Italia riesce ancora a ottenere risultati significativi. Un recente studio della Banca d’Italia (Il sistema della ricerca pubblica in Italia), otre a confermare le note insufficienze strutturali e di finanziamento (invero soprattutto privato) ha rivelato che “l’Italia figura – tra i paesi avanzati presi in esame – nel novero di quelli con un elevato numero di pubblicazioni e di citazioni per unità di spesa, inferiore soltanto a Regno unito e Canada, ma superiore rispetto a Francia, Germania e Stati Uniti, Giappone e Svizzera”. E ancora “Se si rapporta il numero di pubblicazioni al numero di ricercatori, l’Italia è di gran lunga il primo tra i paesi considerati”: insomma, risorse limitate, numero dei ricercatori, in rapporto alla popolazione, modesto, ma risultati importanti.
Questi dati – che pongono in discussione molti pregiudizi negativi – rivelano che il sistema educativo del nostro Paese è pienamente capace di generare studiosi e ricercatori di elevato valore ed è anche in grado di consentire a molti di loro di esprimere le loro capacità. Spiace che essi non possano dedicare serenamente tutte le loro energie agli studi e della ricerca, ma debbano anche confrontarsi con le difficoltà gratuite poste da un sistema di organizzazione supporto della ricerca tutt’altro che efficiente, che spinge non pochi di loro ad andarsene. Con il loro contributo il risultato sarebbe ancora più importante. Tutto questo significa, tirando pragmaticamente le somme, che il nostro sistema educativo è capace di produrre talenti preziosi, che quando sono messi in condizione di operare in Italia offrono ottima prova, che in parte non trascurabile vengono sciaguratamente “regalati” ad altri Paesi. 

    4.    Gli strumenti per reagire a questa situazione non mancherebbero. Scontato, e forse in questi difficili anche velleitario, invocare maggiori risorse. Certamente però è giusto reclamare quanto meno una maggiore libertà di azione nell’esercizio della funzione didattica e di ricerca.
    Come ho avuto modo di sottolineare in occasione della inaugurazione dell’anno accademico a Milano, gli sforzi che l’Ateneo dispiega si scontrano ogni giorno con intralci e impedimenti di ordine burocratico e normativo. Pur essendo, quello italiano, un sistema universitario integrato in cui convivono e collaborano istituzioni di varia origine, tradizione e natura, il nostro Paese si distingue, rispetto a quasi tutte le altre nazioni a economia avanzata, per lo scarso rispetto dell’autonomia delle università non statali. Vale a dire, della loro principale prerogativa, dalla quale dipende il loro ruolo e il loro valore. Si è infatti intensificata, negli ultimi anni, la tendenza ad assoggettare tali atenei a regole proprie delle strutture pubbliche sul piano dell’organizzazione, dello svolgimento dell’attività istituzionale, dell’esercizio dell’autonomia negoziale. Si è così venuta formando una rete di vincoli e oneri non più sopportabili per istituzioni che nella libertà di organizzazione e nell’efficienza della gestione hanno il presupposto fondamentale della loro stessa esistenza, dovendo perseguire i propri obiettivi fidando principalmente sui propri mezzi. Questa assimilazione sempre più estesa e pervasiva al regime proprio della pubblica amministrazione, che però non si estende al sostegno finanziario, si configura come una violazione della libertà assicurata dall’art. 33 della Costituzione e, in concreto, minaccia di soffocare le università non statali. Infine, nessuna pianificazione della attività formativa e di ricerca, e nessuna programmazione della spesa potrebbe resistere a ulteriori drastiche decurtazioni delle risorse disponibili. Al contrario, sarebbe auspicabile la messa a punto di nuove e differenti modalità di sostegno attraverso, per esempio, forme di alleggerimento fiscale coerenti con la natura non profit e di utilità sociale dell’attività degli atenei liberi. E l’Università Cattolica del Sacro Cuore, come recita il Regio Decreto che l’ha «istituita …è riconosciuta come Università libera…» sin dalla propria origine. 

5. Le considerazioni sin qui svolte mi portano a formulare tre rapide riflessioni conclusive sul contributo che una università come la nostra può continuare a offrire per far sì che il potenziale umano del nostro Paese non si disperda. Riflessioni che partono da una base comune: l’università in generale e l’Università Cattolica in particolare deve acquisire ulteriore consapevolezza e valorizzare il proprio essere un luogo di passaggio, di incontro, di scambio di conoscenza tra mondi diversi.
5.1. Luogo di incontro e dialogo tra generazioni. Penso, innanzitutto, all’incontro quotidiano e ripetuto tra persone di generazioni diverse. Come ha scritto Mons. Bruno Forte, infatti: «Mentre il “villaggio globale” dei giovani è sempre più omologato su modelli planetari, le identità tradizionali, radicate in storia, usi e costumi, appaiono relativizzarsi e perdere di interesse ai loro occhi.» In questo senso il nostro Ateneo, fortemente radicato nella propria identità ed esperienza, deve continuare a sforzarsi di parlare con i giovani e di fare parlare i giovani anche ricercando nuove e aggiornate modalità di comunicazione. Ma questo impegno, per essere colto in tutto il suo valore e per essere svolto efficacemente, richiede di concepire realmente la nostra università come una comunità di docenti e di studenti. L’impressione è che molte delle possibilità di riscatto di questa nostra “stanca civiltà” passino davvero dalla riscoperta del gusto, magari anche aspro, del confronto tra generazioni.
5. 2. Luogo di trasmissione di conoscenze e competenze. Penso naturalmente anche all’università come luogo di scambio e di trasmissione di conoscenze e competenze anche al di là del rapporto tra “maestri” e “discepoli”. Mi riferisco, per esempio, all’esigenza di rafforzare ulteriormente il livello della interdisciplinarietà e del dialogo le discipline, sia alle relazioni tra l’università e i suoi numerosi e vari interlocutori. Su quest’ultima direttrice si giocano, peraltro, il senso e la portata della cosiddetta “terza missione” delle università, vale a dire del contributo che queste possono dare alla società e all’economia mediante il trasferimento o la trasformazione di conoscenza per produrre, rafforzare o valorizzare beni comuni materiali e/o di natura relazionale. Già alla fine degli anni Sessanta Jurgen Habermas sosteneva, avendo come riferimento la Germania di quel tempo, che le università sono chiamate ad affiancare al loro compito essenziale che consiste nel «trasmettere certe tradizioni culturali alla società, d’interpretarle e incrementarle», l’impegno a «…soddisfare il bisogno che una società industriale ha di nuove leve qualificate e in pari tempo provvedere a una più ampia riproduzione dei quadri insegnanti.», facendo notare che «In tal modo l’università è, attraverso l’insegnamento e la ricerca, immediatamente connessa con le funzioni del processo economico».
5. 3. Luogo di incontro tra mondo e territorio. Ritengo perciò importante soffermarmi sulla rinnovata centralità che, in generale, sta assumendo il rapporto tra università e territorio. Un legame rispetto al quale la sede di Piacenza costituisce da tempo un modello positivo e propositivo perché ha saputo unire e tenere insieme, nel tempo, due aspetti fondamentali. 
Per un verso, si sono continuate a intessere e a coltivare robuste relazioni cooperative con gli altri attori pubblici e privati che operano nel territorio piacentino. Relazioni sempre incentrate su contenuti forti e quasi sempre di interesse generale. 
Per l’altro verso, la Cattolica ha saputo conservare e anzi sviluppare la propria essenza di universitas, cioè la propria vocazione a trascendere il dato particolare non per eluderne la portata, bensì per collocarlo entro orizzonti di spazio e di senso più vasti, inclusivi e stimolanti; la vocazione a inseguire la conoscenza laddove essa conduce e quindi non solo oltrepassando limiti e barriere intellettuali, ma, se richiesto, anche confini geopolitici per dare vita a collaborazioni con università, centri di ricerca e istituzioni di tutto il mondo. 
La capacità di tenere deste, allenate e coordinate queste due tensioni rappresenta, oggi, alla luce delle grandi trasformazioni intervenute negli ultimi decenni, un fattore strategico fondamentale, che può aiutare le comunità territoriali – sempre più permeabili alle influenze esterne – a non cadere negli opposti errori della chiusura autoreferenziale ovvero della perdita del senso della propria identità storico-culturale. Al contrario, come ha scritto Claudio Magris «La nostra identità è il nostro modo di vedere e incontrare il mondo: la nostra capacità o incapacità di capirlo, di amarlo, di affrontarlo e cambiarlo.». Essere consapevoli della propria identità aiuta a mettersi in gioco e i territori, le realtà locali necessitano più che mai di interlocutori e di punti di riferimento che li aiutino ad anticipare tendenze, a individuare priorità, a selezionare aree di sviluppo, a stabilire contatti utili per giocare la propria partita globale nel rispetto della propria tradizione.

6.
Ciò che ho appena descritto in termini di astratto dover essere si declina in concretezza nelle attività della nostra sede piacentina, che riferirò in sintesi.
1) L’offerta formativa della sede di Piacenza comprende 7 corsi di laurea triennale, 6 corsi di laurea magistrale, 1 laurea magistrale a ciclo unico e 7 master universitari. Pur in presenza di un trend negativo a livello nazionale, le immatricolazioni sono in crescita: dalle 671 matricole del 2009/10 alle 1.035 matricole dell’anno accademico in corso. Il numero degli iscritti è di 2.707, provenienti da tutte le regioni italiane e dall’estero. Le regioni Emilia-Romagna e Lombardia sono le più rappresentate, ma mi sembra interessante sottolineare che gli immatricolati del corrente anno accademico provengono da 44 diverse province. Nell’anno solare 2014 i laureati presso la sede sono stati 757 (60 del ciclo unico, 393 delle triennali, 300 delle specialistiche/magistrali, 4 del vecchio ordinamento) e festeggeranno la loro laurea nel corso della cerimonia che si terrà il prossimo 25 aprile in Cattedrale.
2) Per quanto concerne EDUCATT, l’Ente per il Diritto allo Studio dell’Università Cattolica, nell’anno accademico 2013/14 ha erogato borse di studio a favore di circa 250 studenti della sede di Piacenza con un impegno economico di ca. 850.000,00 €, cui si aggiunge l’esenzione dalle tasse universitarie da parte dell’Ateneo. Inoltre l’Università, anche grazie a contributi di enti sostenitori, ha erogato ulteriori borse di studio, premi di laurea ed aiuti economici agli studenti, per un valore complessivo di € 103.022,50.
3) Nell’ambito dell’offerta formativa una menzione particolare merita Agrisystem, la Scuola di Dottorato per il Sistema Agroalimentare, promossa congiuntamente dalle Facoltà di Scienze agrarie, alimentari e ambientali e di Economia e Giurisprudenza. A far tempo dall’istituzione della Scuola nel 2006 sono 90 le persone che hanno conseguito il titolo di dottore di ricerca. Grazie al sostegno della Fondazione di Piacenza e Vigevano e al contributo di altri enti pubblici e privati, anche stranieri, circa il 65% degli iscritti ha potuto beneficiare di borse di studio. Si tratta di investimenti importanti, che sono ben ripagati dai risultati ottenuti dai nostri dottori di ricerca non solo nella carriera universitaria, ma anche in altri ambiti professionali. A un anno dal conseguimento del titolo, infatti, il 90% dei nostri dottori di ricerca ha trovato occupazione. Oggi gli iscritti sono 60, di cui 48 provenienti da fuori provincia.
4) Fornisco ora qualche dato relativo all’attività di ricerca scientifica svolta nei 4 dipartimenti, nei 5 istituti, nei 15 centri di ricerca e nei 3 spin-off della sede. La sede di Piacenza vanta un riconosciuto rango scientifico a livello internazionale, nuovamente confermato per il 2014, con una cifra davvero ragguardevole di progetti di ricerca finanziati in ambito nazionale ed europeo, con 228 progetti attivi, di cui 138 avviati nel corso dell’anno, per un valore economico pari a oltre 4 milioni di Euro. Le risorse economiche pervenute all’Ateneo per l’attività di ricerca, poiché vengono interamente  reinvestite, generano una ricaduta economica significativa. Nel 2014 la sede di Piacenza ha attivato 163 contratti di collaborazione e 86 assegni di ricerca per la quasi totalità andati a beneficio di giovani laureati.
[5) La storica vocazione di Piacenza alla ricerca scientifica porta la nostra Sede a essere anche un laboratorio per la messa a punto di “buone pratiche” che possono diventare patrimonio dell’intero territorio. Ne è un esempio il progetto di Sostenibilità attivato nel 2013 con la firma di un accordo volontario con il Ministero dell’Ambiente e attraverso il quale la Sede di Piacenza, in tutte le sue componenti (studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo) si prefigge una serie di obiettivi che vanno dalla riduzione degli impatti ambientali alla partecipazione sociale.]
6) Sempre in relazione all’attività di ricerca sottolineo gli ottimi risultati di bilancio conseguiti dai tre spin-off, attivati dall’Università e diventati strutture autonome: AAT srl, HORTA srl ed AEIFORIA srl.
7) Passando all’attività della Formazione Permanente, lo scorso anno accademico sono state promosse 110 iniziative, che hanno registrato 2.632 partecipanti (anche stranieri), con il coinvolgimento di tutte le Facoltà della sede Piacentina.
8) La convenzione con il Gruppo Cariparma-FriulAdria per attività di formazione e sviluppo delle risorse umane e di placement, realizzate presso il Campus di Cariparma in Piacenza, ha raggiunto il settimo anno di attività. Rivolgo un sentito ringraziamento ai vertici di Cariparma per la condivisione di un’iniziativa che è tra le più innovative nel panorama universitario e che coinvolge, in attività di progettazione e docenza, le Facoltà di Economia e Giurisprudenza, Scienze della formazione e Scienze bancarie, finanziarie e assicurative. 
9) Un vivo ringraziamento rivolgo alla Banca di Piacenza che ha ospitato alcune iniziative nel suggestivo Palazzo Galli e che ha concesso una generosa erogazione liberale a favore dei nostri laureati coinvolti nel progetto “Vivaio Giovani”, in vista di Expo 2015.
10) La Facoltà di Scienze della formazione ha instaurato con il Comune di Piacenza un’efficace collaborazione, che ha portato all’attivazione di vari percorsi formativi sui temi dell’educazione.
11) A conferma dello strettissimo legame con la Chiesa locale, anche quest’anno è stata rinnovata la collaborazione con la Diocesi di Piacenza – Bobbio per la quattordicesima edizione del corso “Cives”, spazio di formazione civica.
12) Dell’attività della Sede di Piacenza al servizio del territorio voglio ricordare i numerosi seminari e conferenze di approfondimento e di divulgazione scientifica rivolti non solo agli studenti ma aperti a tutta la cittadinanza. 
13) Una testimonianza assai significativa della vicinanza alla realtà locale e al suo tessuto produttivo è rappresentata anche  dal numero di tirocini, ben 684,  nonché dal successo riscosso dal Career Day svoltosi l’8 maggio 2014. Vi hanno partecipato 106 realtà locali, nazionali e multinazionali con stand, presentazioni aziendali e colloqui di selezione. 
14) Lo stretto legame tra questa Sede e il mondo del lavoro è testimoniato anche dall’intensa attività del servizio Placement. Stage in azienda in Italia e all’estero, incontri di orientamento al lavoro con simulazioni di colloqui aziendali, colloqui con psicologi, assistenza nella preparazione del curriculum, gestione banca dati delle offerte di lavoro: sono solo alcune delle attività svolte al servizio dei nostri studenti e laureati per consentire loro di affrontare con adeguata preparazione anche le selezioni per l’ingresso nel mondo del lavoro.
15) La sede piacentina si caratterizza anche per una decisa apertura alla dimensione internazionale. Nell’a.a. 2013/14 gli studenti provenienti dall’estero per partecipare a periodi di studio e a progetti internazionali di ricerca e stage sono stati 141, mentre i nostri studenti che hanno partecipato a progetti di studio e stage all’estero sono stati 261, per un totale di 402 studenti coinvolti nei programmi internazionali (+ 87% negli ultimi due anni).
16) La Facoltà di Scienze agrarie, alimentari e ambientali ha contribuito al raggiungimento di questi importanti risultati grazie ai programmi Erasmus Mundus “Master Internazionale Vintage” in materia di Viticoltura ed Enologia e “Master di primo livello in tema di prodotti alimentari tipici europei”, denominato “Master Food Identity”. Ha collaborato con l’Ufficio Internazionale alla realizzazione di Summer Program, che hanno visto la partecipazione di numerosi studenti internazionali.  Ha stipulato nuovi accordi di scambio con Niagara College in Canada e State University of New York campus di Cobleskill.
17) Con l’introduzione del profilo professionalizzante in “International Management” della Laurea magistrale in Gestione d’azienda, interamente erogato in inglese, la Facoltà di Economia e Giurisprudenza ha rafforzato la sua già significativa posizione internazionale, attraendo studenti dall’estero. Il partenariato del programma di studi, unico in Italia, “Doppia laurea in Management Internazionale” si è ulteriormente esteso negli U.S.A. con l’ingresso di Elon University e di Rollins College. Attivati inoltre nuovi percorsi di scambio di studenti con università del Messico, del Portogallo e della Spagna anche per gli studenti di Giurisprudenza e di Scienze della formazione.
18) Per diversi programmi internazionali un significativo apporto è stato fornito dalla Camera di Commercio di Piacenza, dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano e dalla Fondazione Lino Tollini, ai cui rappresentanti desidero rinnovare il più sentito ringraziamento per gli aiuti economici concessi per i nostri studenti.
19) Mi preme poi ricordare che la nostra Università ha sottoscritto il 9 ottobre 2013 il protocollo d’intesa per la promozione di iniziative del Sistema istituzionale, economico e sociale della provincia di Piacenza in vista dell’Esposizione Universale Expo 2015. Un appuntamento straordinario a cui l’Ateneo sta dedicando grande attenzione. Colgo l’occasione per ringraziare di cuore il Prof. Pier Sandro Cocconcelli, docente della Facoltà di Scienze agrarie, alimentari e ambientali in questa sede, che sia come delegato rettorale al coordinamento dei progetti di internazionalizzazione, sia come direttore di Expolab sta svolgendo un lavoro prezioso per l’intero Ateneo. Così come ringrazio i rappresentanti della sede piacentina della nostra Università che, partecipando alle attività promosse dall’Associazione Temporanea di Scopo “Piacenza per Expo 2015”, offrono il loro contributo per far sì che Piacenza possa ricoprire un ruolo importante durante l’Esposizione Universale. Per valorizzare il nostro territorio, la sede piacentina è stata particolarmente attiva ed ha promosso seminari e numerosi convegni di livello nazionale e internazionale, che si terranno a Piacenza da maggio a ottobre 2015, in concomitanza con l’Esposizione Universale: ben 13 Convegni per i quali si prevede  l’arrivo nella nostra città di circa 2500 convegnisti .
20) Al percorso fin qui tracciato unisco il vivo ringraziamento dell’intera comunità universitaria a tutti quanti contribuiscono alla vita e al continuo sviluppo del polo piacentino dell’Ateneo dei cattolici italiani: ai rappresentanti dell’Epis, Ente di Piacenza e Cremona per l’Istruzione Superiore, e all’intera collettività piacentina, che ha consentito in questi anni alla nostra Università di consolidare la propria presenza e il proprio servizio formativo, scientifico e culturale. 

7.  Le attività e i dati che fin qui riferito sono eloquente motivo per rivolgere un sentito ringraziamento a quanti operano nell’ambito della sede piacentina, a tutti i nostri interlocutori istituzionali e a tutte le realtà (imprese, associazioni, ong, volontariato) con cui abbiamo stretto delle partnership.
Rivolgo innanzitutto un amichevole ringraziamento ai Presidi, Proff. Anna Maria Fellegara, Lorenzo Morelli e Luigi Pati. A questo proposito, colgo l’occasione per ringraziare, anche in questa sede, il prof. Michele Lenoci, che al termine dello scorso anno accademico ha lasciato la Presidenza della Facoltà di Scienze della formazione dopo lunghi anni a essa dedicati con passione, professionalità e sensibilità umana. Ringrazio inoltre il Direttore Amministrativo dell’Ateneo, Prof. Marco Elefanti, il Direttore della sede di Piacenza, Dott. Mauro Balordi, il Direttore del Dipartimento di Economia agro-alimentare e membro del Consiglio d’Amministrazione della nostra Università, prof. Renato Pieri, e excellens in fundo, il Vescovo di Piacenza-Bobbio, Sua Eccellenza Mons. Gianni Ambrosio sia per la sua saggia opera di Pastore sia come autorevole membro del Consiglio d’Amministrazione del nostro Ateneo e del Comitato di Indirizzo dell’Istituto Giuseppe Toniolo di studi superiori. Un ringraziamento particolare va, anche in questa sede, al nostro Assistente Ecclesiastico Generale, Mons. Claudio Giuliodori per il suo costante impegno pastorale e per il prezioso contributo alla vita di questo Ateneo. 
Il ringraziamento della nostra intera comunità universitaria va alle Autorità e Istituzioni cittadine per il perdurante e prezioso sostegno alle numerose iniziative della dinamica sede di Piacenza, delle quali mi accingo a dar conto. Per ragioni di tempo, non potrò riferire di ogni singola attività svolta: mi scuso in anticipo per le omissioni.
Adempio volentieri, infine, a una delle consuetudini che indicano il nostro essere e riconoscerci come comunità di persone che, oltre al lavoro e allo studio, condividono valori importanti. Pertanto, facendomi tramite dell’intera famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ringrazio i docenti e i ricercatori che sono giunti al termine formale del loro itinerario accademico, per il prestigio dell’attività scientifica svolta e per il contributo fornito per l’educazione di numerose generazioni.
La nostra gratitudine si rivolge quindi ai professori: 
Ermes Frazzi (associato di Costruzioni rurali e territorio agroforestale)
Carla Corti (ricercatore di Botanica ambientale e applicata)
Ai docenti, ai ricercatori, agli assistenti pastorali e ai componenti del personale tecnico-amministrativo e assistenziale, che sono entrati a far parte dell’Università Cattolica del Sacro Cuore nel corso dell’ultimo anno, formulo un affettuoso benvenuto, con un augurio del tutto speciale per le matricole. A tutte le persone – docenti e ricercatori, docenti di teologia, assistenti pastorali, personale e dirigenti amministrativi – che quotidianamente lavorano per valorizzare e incrementare l’opera affidataci, quale preziosa eredità, da coloro i quali ci hanno preceduti, formulo sentimenti di riconoscenza per il generoso impegno con cui sostengono la vita dell’Ateneo. 
Infine, in ossequio a un’ulteriore importante tradizione, doverosamente ricordo tutti coloro che, fra i docenti e gli antichi docenti, il personale tecnico-amministrativo e i nostri studenti, nel corso dell’ultimo anno sono stati chiamati alla casa del Padre. Qui ricordo il professore emerito Vittorio Bottazzi.
E con la rinnovata consapevolezza di essere una vera comunità di ricerca, studio e lavoro concludo, ringraziando per l’attenzione e vi ringrazio. 

 

DIES ACADEMICUS 
Lectio: il diritto dei minori all'educazione: il ruolo dell'Università.

Professoressa Simonetta Polenghi

Nell’anno 1900 Ellen Key pubblicò il suo celebre e pluritradotto libro “Il secolo del bambino”, nel quale sostenne che si sarebbe potuta migliorare la società, ponendo l’infanzia al centro di ogni interesse pubblico e privato.  L’afflato ottimistico e utopico che pervadeva il libro, e che si trova anche nella pedagogia di Maria Montessori, la quale conosceva l’opera della femminista svedese, risulta oggi non pienamente corrispondente a quanto attuato in cento e più anni. Il bilancio circa l’attuazione dei diritti dell’infanzia, infatti, presenta molte luci,  ma ancora alcune ombre, e non solo nei paesi in via di sviluppo. 
Le Carte dei diritti
La definizione culturale dei diritti del bambino si sostanzia nel Novecento dapprima nella Dichiarazione di Ginevra dei diritti del fanciullo del 1924, quindi nella Carta dell'Infanzia del 1942, poi nella Dichiarazione dei diritti del fanciullo e nella Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, approvate dall’ONU rispettivamente nel 1959 e nel 1989, che includono accanto al diritto alla vita, all’amore educativo, al gioco, all’educazione (1959) anche la libertà di opinione, di pensiero, di coscienza e religione, di associazione, il diritto alla riservatezza, all’informazione, al tempo libero. 
Unanimemente riconosciuto come padre spirituale di queste Carte è il pediatra ebreo polacco Janusz Korczak, luminosa figura di educatore, morto accompagnando  volontariamente a Treblinka i suoi bambini dell’orfanotrofio del ghetto di Varsavia, che non volle abbandonare. Il suo impegno costante nel promuovere una nuova idea di infanzia, lo aveva portato  a elaborare la Magna Charta dei diritti del bambino, centrata sul rispetto profondo del bambino come persona. Egli elevava la condizione del bambino da oggetto a "soggetto di diritto", principio ripreso in particolare nella Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989. A Korczak il Dipartimento di Pedagogia ha dedicato due seminari e mostre, a Milano nel 2012 e a Brescia nel 2014. 
La pedagogia, la psicologia e la sociologia hanno significativamente contribuito  a far maturare e diffondere una cultura dell’infanzia, che si fondi sul concetto di bambino appunto come soggetto libero. L’idea di cultura dei minori (Kinderkultur, children’s culture), infatti si esplica in modo duplice, come cultura  per i minori (prodotta da adulti, riflette le idee degli adulti, ad es.: letteratura per l’infanzia, industria del giocattolo, libri di testo, etc.) e come cultura dei minori (prodotta dai minori stessi). Si tratta di una duplicità, ormai chiarita a livello teorico, che nasce dalla consapevolezza che bambini e adolescenti hanno la loro mentalità e i loro codici di gruppo. Il fanciullo non è più visto come molle cera da plasmare, bensì come soggetto libero, portatore di simboli, codici e chiavi ermeneutiche di lettura del mondo circostante.
La presa di coscienza dell’alterità del bambino e del rispetto lui dovuto è stata però lenta. 
La scoperta dell’ infanzia
In realtà, la storia dell’educazione ha da tempo mostrato come le radici della scoperta dell’infanzia siano da collocarsi nell’età dei Lumi, ma prima ancora, in taluni fenomeni religiosi del Cinque e del Seicento, quali la devozione al Bambin Gesù, teorizzata da Erasmo, il quale scrisse che “grande è il carattere sacro del bambino”, devozione che fu anche centrale nella mistica carmelitana. Un ruolo fondamentale, dapprima in ambito protestante, ebbe inoltre il grande pedagogista Comenio, vescovo dei Fratelli boemi nel primo Seicento, la cui visione ottimistica di un’infanzia innocente, che avrebbe potuto redimere l’umanità, si innervava sul testo biblico e si sostanziava  su una concezione etico-religiosa del mondo.  Attenzione particolare, medica, pedagogica e religiosa riservò all’infanzia la comunità pietista di N.L.von Zinzendorf, che nel 1727 accolse a Herrnhut, in Sassonia, un gruppo di Fratelli boemi esuli. Determinate forme di religiosità sono state quindi centrali nella scoperta dell’infanzia, che non fu prerogativa esclusiva dell’Illuminismo laico. L’idea del bambino innocente, puro, nasce infatti prima di Rousseau. 
Tuttavia, è nel Settecento che la pedagogia e la medicina sempre più volgono uno sguardo nuovo sulla mente e sul corpo dei bambini: è il secolo in cui affonda le radici la pediatria; in cui sorgono riviste di pedagogia e didattica, quali l’ Allgemeine Revision di J.Campe, che diffonde Rousseau in ambito linguistico tedesco;  in cui si afferma in Germania una proto-industria del giocattolo; in cui si teorizza il diritto di tutti i bambini all’istruzione e si inizia in Brandeburgo, ma soprattutto nell’Impero asburgico dal 1774, ad imporre l’istruzione obbligatoria per maschi e femmine dai 6 ai 12 anni. 
Rousseau aveva scritto lucidamente che: “L’infanzia non è conosciuta, ha modi di vedere, pensare, sentire che sono suoi propri”: è cioè erroneo applicare ai minori schemi di pensiero propri degli adulti, viceversa l’educatore deve adattare la propria opera alla mente dell’educando, attuando una inversione metodologica, che sarà definita poi rivoluzione copernicana pedagogica e sarà teorizzata compiutamente con la pedagogia dell’attivismo e delle Scuola nuove, tra Otto e Novecento.
L’attenzione ai bisogni dell’infanzia proseguì nel secolo XIX, concretizzandosi in particolare nella tutela del diritto all’istruzione elementare, e molto più limitatamente al diritto all’accesso a servizi prescolastici (gli asili), sicché, appunto, giustamente Ellen Key poteva scrivere che ancora i diritti dei bambini all’alba del XX secolo non erano appieno tutelati –basti ricordare la piaga del lavoro minorile.
La scoperta dell’adolescenza
Se comunemente (e non del tutto correttamente, come detto) si fa coincidere la scoperta dell’infanzia con la pubblicazione dell’Emilio di Rousseau (1762), la scoperta della seconda infanzia (fascia 3-6) si deve alla pediatria e si colloca nei primi decenni del XIX secolo. La scoperta dell’adolescenza, invece, è più tarda, e convenzionalmente coincide con la pubblicazione nel 1904 della ponderosa opera dello psicologo e pedagogista statunitense Stanley Hall Adolescenza. Sulla scia di un orientamento positivistico, Hall  ricondusse gli aspetti che caratterizzano tale fase di passaggio alle trasformazioni biologiche proprie di questa età, perciò indipendenti da variabili culturali e ambientali. Anche per Hall l’adolescenza, come già l’infanzia per Rousseau, non era ancora correttamente identificata. L’imporsi delle pulsioni sessuali, le tensioni emotive estreme, i sentimenti contrastanti, renderebbero l’adolescenza una fase di vita drammatica ma inevitabile. Per lo psicologo statunitense, l’adolescenza è determinata biologicamente ed è dominata da forze istintuali che devono potersi sfogare in un periodo in cui il giovane non deve essere spinto a comportarsi come adulto perché ne è incapace.  
Stanley Hall forniva una razionalizzazione della dipendenza imposta ai giovani, una teoria normativa di questa nuova fase della vita, teoria che fu accolta con favore da genitori, insegnanti e dirigenti dei movimenti giovanili, tutti provenienti dalla classe media. Nel secolo XIX infatti, la borghesia aveva visto con timore gli anni dell’adolescenza, anni irrequieti, nei quali i giovani facilmente partecipavano a moti e rivolte sociali. Non a caso, l’istruzione secondaria, anche in paesi democratici quali la Terza repubblica francese, si caratterizzava per la sua impronta fortemente disciplinante, simile a quella delle caserme. La famiglia borghese, ormai abbastanza attenta ai bisogni dei bambini,  temeva invece i  figli adolescenti. La pericolosità dei ragazzi era legata alla loro età, non alla loro condizione sociale. La società doveva allora difendersi dai giovani e nel contempo proteggerli. 
In realtà, anche l’adolescenza è un’età della vita strettamente correlata a dinamiche di tipo socio-culturale e non solo biologiche. Basti ricordare, per quanto attiene allo sviluppo fisico, che comunque l’età puberale ha avuto nella storia datazioni ben lontane da quelle di oggi (il menarca era molto variabile nelle popolazioni antiche, da 12 a 20 anni e  nell’800 si collocava intorno ai 16 e anche 17 anni, contro gli 11 di oggi).  L’ipoalimentazione e il lavoro pesante ritardavano lo sviluppo. Sino agli inizi del Novecento la crescita si completava solo dopo i 20 anni, come attestano i risultati delle visite di leva. Ai nostri giorni si è adulti in senso biologico molti anni prima rispetto ai secoli precedenti.
Soprattutto, la durata media della vita e la durezza delle condizioni ambientali impedivano, si può dire, che l’adolescenza avesse un suo spazio, proiettando subito i bambini nell’età adulta. Nell’Europa preindustriale, adolescenza e giovinezza erano identificate, in una fase dai 12 ai 20 anni circa, interrotta dal matrimonio e dall’indipendenza economica, i due fattori che segnavano l’ingresso nella vita adulta (a differenza di oggi), una vita che si concludeva tra i 40 e i 60 anni. Oggi, l’allungamento della vita, che nel corso del XX secolo ha fatto guadagnare circa 25 anni, ovvero una generazione, ha permesso l’affermarsi dell’adolescenza come età a sé, caratterizzata dal disagio e dall’inquietudine, prima di una lunga e protratta giovinezza. Basti ricordare grandi opere letterarie di scrittori come Zweig, Musil e Moravia, che hanno messo a fuoco i tormenti di quest’età, nel Novecento. La ricerca etnologica ha però dimostrato che diventare adulti in altre società non implica necessariamente l’istituzione di un “limbo” tra l’infanzia e l’adultità, ma spesso invece consiste in un passaggio breve (più o meno traumatico) sancito attraverso un rito di iniziazione o di “passaggio”.
Crisi dei valori
Nel nostro tempo, però, la distanza tra la condizione adolescenziale e quella adulta si è ridotta, per effetto del giovanilismo degli adulti che tendono a restare il più possibile indefinitamente, persino chirurgicamente, giovani e per effetto della precoce adultizzazione dei ragazzi che spesso accedono a margini di libertà e di autonomia non sempre commisurati alla loro reale capacità di gestirli responsabilmente. La crisi degli adolescenti, oggi, si colloca nel contesto di una crisi più vasta e generalizzata, tanto che perfino il loro disagio non rappresenta forse che l’avamposto di un disagio collettivo, non più soltanto individuale, ma della società e della cultura.
L’adolescenza, allora, non è più il tempo del turbamento a cui segue il tempo della maturità e della sicurezza. È, piuttosto, il tempo in cui si impara ad abitare nell’incertezza e a stare nella condizione di ricerca, che accompagna tutta la vita. La crisi adolescenziale, cioè, si colloca oggi all’interno di una più ampia crisi valoriale della società globalizzata,  liquida, frammentata, per usare termini ben noti nelle scienza umane.  Tale crisi ha evidenziato una situazione di “emergenza educativa” di  ampia portata. Lucidamente Benedetto XVI ha scritto, nella lettera sull’educazione alla città di Roma (2008),  che :
“Educare non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile (…) [vi sono] un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita (…) Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale” .
Lo psichiatra Viktor E. Frankl (sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti) riteneva che l’incertezza, il dubbio e perfino la sensazione di vuoto e di insensatezza fossero una condizione normale, in certo qual modo necessaria, del vivere nel mondo. L’angoscia giovanile è da considerarsi allora un segnale di salute spirituale, e non il sintomo di una nevrosi. Preoccupante non è che molti ragazzi si domandino se la vita abbia un senso, ma che molti di loro non se lo chiedano mai. Se il disagio è un fatto culturale, e non psicologico, allora c’è bisogno di una risposta non clinica, bensì educativa.
Tanto nell’educazione dei giovani quanto nella prevenzione e nella cura del disagio che li affligge, è necessario passare da una prospettiva incentrata sulla soddisfazione di bisogni psicofisici, ad una più attenta alle esigenze spirituali. Un’educazione tesa a riscoprire e coltivare nei giovani la forza propulsiva degli ideali, dei significati esistenziali e dei valori costituisce una risposta valida al disagio dei ragazzi, perché la resilienza non consiste nel non patire alcun limite, bensì nel poter condurre una vita significativa nonostante l’esperienza del fallimento o della frustrazione. 
Parimenti,  Wolfgang Brezinka, grande pedagogista cattolico tedesco cui la Facoltà di Scienze della Formazione ha conferito il 12 maggio 2014 la Laurea h.c., ha indicato nella fedeltà ai valori la via per intraprendere un’efficace azione educativa. Non è la fuga dal dolore, come oggi si tende a credere, ma la capacità di affrontare la sofferenza connaturata alla condizione umana, che comporta la crescita.
L’attenzione educativa nei confronti dei bambini, dei ragazzi e dei giovani rappresenta inoltre un’asse fondamentale anche della riflessione e della progettualità pastorale della Chiesa Italiana. Svolgono ad esempio un ruolo prezioso a questo proposito gli oratori, che avvertono l’importanza di mantenere alto il livello della propria proposta educativa e le competenze dei propri operatori e volontari, per il rilancio di una formazione alla vita di fede capace di intercettare realmente gli adolescenti di oggi.
Crisi economica 
Il contesto attuale della nostra società, non è solo di nihilismo e dissoluzione dei valori, ma anche di crisi economica, che comporta il crescente fenomeno della povertà minorile. I bambini e gli adolescenti sono tra i soggetti più vulnerabili alle situazioni di povertà ed esclusione, che determinano una catena di svantaggi sociali a livello individuale in termini di più alto rischio di abbandono scolastico, più basso accesso agli studi superiori, più bassa qualità della vita. I minori in povertà sono i figli di famiglie numerose, di nuclei monogenitoriali, di famiglie immigrate. Molti sono nel Mezzogiorno. La Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza ha evidenziato un aumento della povertà minorile decisamente più significativo di quello riferito alla popolazione adulta. Se per la popolazione adulta si è passati da 9,6 milioni di poveri nel 2012 a poco più di 10 milioni nel 2013, per i minori poveri si passa da 4,8 milioni a 6 milioni.
In particolare, il numero di minori in povertà assoluta risulta raddoppiato in due anni: nel 2011 erano 723.000, mentre nel 2013 sono arrivati  a 1.434.000. Nel confronto europeo, l’Italia si colloca agli ultimi posti della classifica. Ciò si deve al fatto che nel nostro Paese non solo si investono meno risorse per i minori rispetto ad altri Stati, ma i trasferimenti monetari non sono accompagnati da servizi adeguati, quindi sono scarsamente efficaci. 
I tagli ai servizi sociali praticati negli ultimi anni sono stati molto gravi. Dal 2003 ad oggi, risultano diminuiti sia gli stanziamenti destinati al fondo per l'infanzia e l'adolescenza (dell’80 % circa), sia i fondi della legge n.328 del 2000 (legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) nonché quelli per i nidi. Secondo i dati acquisiti dalla Commissione, in Italia: solo il 13,5% dei minori da 0-2 anni nel 2011/2012 aveva accesso a servizi socio educativi comunali. Ciò proprio quando i  servizi per la prima infanzia vanno sempre più affermandosi nel proprio ruolo di luoghi di prevenzione e di condivisione di valori e saperi educativi, e nonostante gli studi di James Heckman (premio Nobel Economia nel 2000) abbiano mostrato che l’investimento nel capitale umano nei primissimi anni di vita è cruciale per ridurre le diseguaglianze e rafforzare l’economia, anche in periodi di crisi. 
La formazione degli operatori
La formazione degli operatori è, in questo quadro complesso, una  esigenza fondamentale, per la tutela dei diritti dei minori e per un’effettiva ed efficace opera educativa. La Facoltà di Scienze della Formazione è da tempo attiva in quest’ambito, con la laurea triennale che forma gli educatori, nelle tre sedi di Milano, Brescia e Piacenza, con la laurea quinquennale per la formazione di insegnanti elementari e di scuola dell’infanzia a Milano e Brescia e con le Lauree magistrali, una delle quali, quella attiva nella sede piacentina, ovvero Progettazione pedagogica nei servizi per i minori, è l’unica Laurea magistrale in Italia specificamente dedicata all'area del coordinamento di servizi educativi e socio – assistenziali dei minori.
Il percorso formativo della Laurea magistrale in Progettazione pedagogica nei servizi per i minori attiva dal 2009-10, mira a formare operatori capaci di lavorare in una logica "di sistema" o "di rete" per sviluppare un'efficace integrazione degli interventi in continuo dialogo con il territorio. Alla formazione di questo profilo concorrono principalmente competenze pedagogiche, psicologiche, sociologiche, ma anche giuridiche, storiche, filosofiche, che insieme delineano una figura professionale che abbia alte competenze teoriche e pratiche nelle scienze dell'educazione, segnatamente nell’ambito socio-educativo riferito ai minori. Il tirocinio obbligatorio negli enti e i laboratori attivati, in diritto e in pedagogia, consentono agli studenti di affinare le capacità pratico-operative.  Ad oggi, il corso di laurea ha dimostrato di saper attrarre studenti provenienti da altri atenei,  anche del centro e del Meridione, a testimonianza dell’originalità del suo percorso formativo. 83 giovani si sono laureati in 4 anni, con un tasso di occupazione che dopo un anno raggiunge il 100%. Caratteristiche rilevanti del corso sono i contatti attivati con il territorio piacentino e quello nazionale, in particolare con gli enti di carattere socio-educativo e con le amministrazioni (sono attive 28 convenzioni a Piacenza e 26 sul territorio nazionale),  ma si segnalano pure le esperienze di tirocinio e di apprendimento svolte all’estero, in USA, in Bolivia, in Brasile, in Germania.
A fronte di questi risultati positivi, la Facoltà è attualmente impegnata in un’opera di potenziamento del corso di Laurea, già ben radicato sul territorio piacentino, per ulteriormente rafforzare la sua capacità di attrazione nazionale.
Caratteristica del corso, infatti, è la sua attenzione a fornire ai laureati non solo specifiche competenze tecnico-operative, ma pure una formazione che sostanzi la saldezza culturale umanistica, necessaria a fronteggiare le sfide poste dalla società odierna e sopra rapidamente delineate, per progredire nella direzione di una liberazione della persona, che trovi nell’etica dei valori e della comunità il suo compimento naturale.