Ha parlato per più di tre ore rispondendo alle domande sempre più incalzanti del giudice e dei piemme. In mezzo tanti singhiozzi e gli sguardi materni rivolti spontaneamente alla gabbia dove da più di un anno è rinchiuso il figlio, accusato del peggiore dei crimini: l’omicidio del padre. Non sono mancate nemmeno le frasi apparentemente posticce, pronunciate talvolta in un italiano talmente modesto da cerare difficoltà nel dialogo.
E’ stata la deposizione di Maria Russo il momento clou dell’ultima udienza in Corte d’assise per il processo sull’omicidio di Sariano di Gropparello. Maria Russo, costituitasi parte civile nel processo, è la madre dell’imputato Adriano Casella (imputata per occultamento di cadavere anche la sorella Isabella) e la moglie della vittima, Francesco Casella.
Una deposizione che, proprio nelle sue battute finali e nella ridda di dichiarazioni anche un po’ confusionarie, ha fatto venire a galla in sede processuale anche una nuova prospettiva, ancora tutta da vagliare: sarebbero stati due “uomini di colore” a sparare a Francesco Casella con la pistola per uccidere le vacche all’interno della stalla e a costringere Adriano a sparare successivamente un colpo a vuoto affinché lasciasse le impronte digitali sull’arma e venisse quindi incolpato. Una versione che l’imputato avrebbe fornito di recente, alla fine del luglio di quest’anno, subito dopo aver scritto dalla prigione una lettera alla madre in cui, con toni impauriti, le spiegava di aver subito minacce in carcere da cittadini stranieri e la invitava a denunciare l’accaduto ai carabinieri. “Vai a denunciare tutto, qui mi minacciano, vogliono che confessi di essere stato io. Invece sono stati loro ad uccidere il papà. Vai subito a fare denuncia, fallo subito. Vi voglio bene”. Sono le parti della lettera di Adriano Casella lette in aula che hanno dato il là alla denuncia. Un colpo di scena? In realtà la procura con i piemme Antonio Colonna e Ornella Chicca non pare minimamente scalfita nella sua teoria, convinta da sempre che Adriano abbia sparato un colpo alla testa del padre per liberarsi così di quello che costituiva l’ostacolo principale per arrivare ai soldi, il padre Francesco appunto, e riscattare così la prostituta albanese Suada Zylyfi di cui aveva perso la testa. Piuttosto i piemme hanno contestato in più punti la deposizione della madre trovando incongruenze rispetto alle versioni fornite dalla stessa ai carabinieri i giorni precedenti e successivi alla scoperta del delitto e all’arresto del figlio: come ad esempio sugli incontri avuti con Suada, sulla data della trattativa con il commerciante per la vendita degli attrezzi da lavoro (“mio marito non voleva assolutamente venderli”), sulla ricostruzione dei giorni precedenti la scomparsa del marito.
Chi invece si è avvalsa della facoltà di non rispondere è stata proprio lei, Suada Zylyfi, la donna di cui Adriano Casella si era invaghito e che per lei continuava a pretendere soldi in casa adducendo motivazioni sempre diverse. La stessa madre lo ha ammesso: “Da quando l’aveva conosciuta, Adriano era diventato strano. Continuava a chiedere soldi, ora per farsi operare al ginocchio malandato, ora per ristrutturare l’appartamento di sopra. Noi continuavamo a concederglieli. Diceva solo che ne aveva bisogno e che li avrebbe restituiti. Ma col tempo queste continue richieste fecero precipitare il rapporto con suo padre”.
Nel corso dell’udienza è stata ascoltata anche una prostituta italiana, originaria di Mazara del Vallo, “collega” di Suada, da lei definita “una bravissima manipolatrice”: “Non ho mai conosciuto Casella – ha spiegato alla corte – So solo che Suada si vantava che in un mese era riuscita a spillargli 109mila euro. Con quei soldi diceva di essersi comprata due case in Albania e un’auto”.