“L’unica morte che non ha un colpevole è quella naturale”. L’ha scritto Adriano, uno dei tanti utenti di Facebook che in questi giorni stanno commentando la notizia agghiacciante della morte di Luca Di Pietra, il carabiniere di 39 anni, padre di due bambini, che si è schiantato lunedì mattina contro un tir in sosta mentre inseguiva dei criminali in fuga a Castelsangiovanni. E’ morto facendo il suo lavoro, certo, e non è assurdo dire che sono i rischi di un mestiere oggettivamente pericoloso, con una serie di variabili legate alla tipologia del servizio. Inseguire a velocità pazzesca un’auto in fuga, e farlo in mezzo al traffico, è una di quelle attività nelle quali le variabili potenzialmente fatali non si contano nemmeno.
Ma il punto è un altro, e sono in tanti a toccarlo proprio in queste ore. Il punto è che una Fiat Bravo – l’auto in dotazione all’Aliquota radiomobile dei carabinieri di cui era alla guida Luca Di Pietra – non aveva e non avrà mai nessuna possibilità di competere con l’Audi di grossa cilindrata sulla quale stavano fuggendo i delinquenti, che peraltro hanno fatto perdere le loro tracce. Bravo contro Audi, è questo il problema. Fino a qualche tempo fa i reparti delle forze dell’ordine che lavorano sulla strada avevano mezzi diversi, sempre italiani (per non fare torto all’economia nazionale) ma di certo più performanti e soprattutto più sicuri.
Ora, magari sarebbe accaduto ugualmente, magari l’appuntato Di Pietra sarebbe morto allo stesso modo anche se fosse stato al volante di una Ferrari blindata (che naturalmente non esiste), ma resta tuttavia aperta la questione dell’adeguatezza dei mezzi e dell’equipaggiamento in dotazione alle forze di polizia. E’ mai possibile che lo Stato debba risparmiare sugli strumenti che dà in mano ai suoi tutori dell’ordine, ai suoi difensori? Qual è la considerazione che sta alla base di questa scelta?
Viene da pensare che la politica, i cui rappresentanti finiscono nelle istituzioni e fanno le leggi, non consideri una priorità questa esigenza, non consideri indispensabile la difesa del cittadino. A chiederselo, più o meno in questi termini, sono in tanti. Ma non tra i privati cittadini, che di rado – se non coinvolti direttamente – si trovano a dover fronteggiare i “cattivi”; se lo chiedono invece molti appartenenti alle forze di polizia. E dopo i fatti di lunedì se lo chiedono con ancora più forza, più dolore e più rabbia.
“Sono anni che ci battiamo perché le forze di polizia vengano messe nelle condizioni di assolvere al meglio i suoi doveri – dice Ciro Passavanti, segretario provinciale del Sap, sindacato di polizia – E lo facciamo con una campagna specifica dal nome indicativo: Chi difende i difensori?”. Una campagna e una serie di sforzi perlopiù inascoltati, ma che ora, dopo la morte di Luca, non potranno che rinvigorirsi.
“Non è pensabile che nel 2014 chi lavora in mezzo alla strada non sia messo nelle condizioni di farlo quantomeno in sicurezza – prosegue Passavanti, che è ispettore di polizia – E’ davvero ora che ci si fermi tutti a riflettere, che la politica, che il Governo si fermino a riflettere. E se non lo faranno, torneremo a sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema. Che è assolutamente cruciale”.
E’ cruciale che i “buoni” abbiamo almeno le stesse possibilità dei “cattivi”. Uno Stato moderno non può non avere questa come priorità, anche perché i criminali, soprattutto se organizzati, non stanno certo a badare a spese. Ma anche senza andare a toccare le mafie o i boss del narcotraffico (che probabilmente, e purtroppo, avranno sempre più mezzi e più risorse dello Stato), basterebbe tenere in una diversa considerazione il “semplice” – si fa per dire – lavoro sulla strada. La volante della polizia, il radiomobile dei carabinieri e tutti i reparti che lavorano a stretto contatto con le persone, con i delinquenti comuni, nei quartieri, nei sobborghi, nei vicoli o sulle autostrade: sono questi reparti che ogni giorno devono affrontare situazioni che forse non saranno paragonabili alla guerra con i cartelli della droga sudamericani ma sono comunque al limite. E basta davvero poco per morire: non servono i bazooka dei narcos ma è sufficiente un coltellino a serramanico nelle mani di un balordo, una caduta (magari perché la divisa non prevede gli anfibi ma le scarpette di cuoio, com’era fino a poco tempo fa e com’è ancora in molti casi) oppure una sbandata al volante di un’auto che non è nata per andare a quella velocità.
Illuminanti, in proposito, le riflessioni proprio sul caso di queste ore, scritte da un poliziotto che cura un blog molto seguito, http://paroleingiaccablu.wordpress.com. Riportiamo un brano del suo testo:
“Quelle scatole a motore sono le vere portatrici di morte. Nulla di più disonorevole, in fondo chi indossa una divisa pensa sempre al conflitto a fuoco, alla coltellata non certo alle tragedie della strada, il primo e vero motivo di morte delle nostre uniformi nell’adempimento del dovere.
Dobbiamo però tenere a freno questo virus, sollevare il piede da quel maledetto accelleratore, chi scappa può fuggire e forse è bene lasciarlo fare, cosa avrebbe mai potuto una Fiat Bravo rispetto a un’Audi di grossa cilindrata? Quanto sarebbe potuta essere più sicura in termini di sicurezza passiva un’altra vettura magari più performante? Passare da un tre volumi da 200cv come l’Alfa Romeo 159 a un due volumi come la Fiat Bravo da nemmeno 150cv deve farci riflettere tutti, non solo in termini di possibilità di ingaggiare un inseguimento ma anche in termini di sicurezza passiva perché, purtroppo, quella tragedia sarebbe potuta capitare a chiunque.
Non posso sostenere che sia colpa del veicolo, di certo c’è che rispetto al passato le differenze ci sono e nemmeno poche!
Non voglio entrare nel merito delle politiche criminali di questo paese ma anche l’adozione dei veicoli di polizia può dire molto su ciò che davvero il sistema vuole da noi!
Sono veri eroi questi ragazzi che hanno cercato, con mezzi così esigui, di contrastare i criminali, ma se il sistema adotta strumenti nettamente inferiori rispetto alla criminalità anche noi dobbiamo, per il bene nostro e della collettività, abbassare le pretese cercando di contrastare quel virus che ci porta ogni giorno a cercare l’adempimento del dovere massimo, quello che può esserci fatale”