Professionisti qualificati, giovani e certamente non in cerca di un altro impiego. Difficile, allora, spiegare cosa abbia spinto i due medici piacentini Edoardo ed Elisa, a partire verso uno dei luoghi considerati oggi tra i più pericolosi al mondo: la Repubblica Democratica del Congo. E’ qui, infatti, che fu scoperto nel 1976 il virus dell’Ebola. E sempre in queste ore è tornato a fare paura, con i primi casi accertati e confermati dal ministro della Salute congolese, Félix Kabange Numbi.
E’ da questo paese africano, martoriato dalla guerra civile tra hutu e tutsi – le etnie presenti al confine con Burundi e Ruanda – che i due sono appena tornati e ci hanno riportato la loro esperienza, basata sulla passione per il proprio lavoro e la voglia di spendersi per gli altri. Anche grazie alla Elio’s Onlus, associazione di Reggio Emilia guidata da altri due medici, Elisabetta e Paolo, che certamente non portano avanti questo progetto inseguendo la carriera o facili guadagni e da cinque anni operano all’Ospedale cattolico Charité Maternelle. E, forse, lo spirito che li ha spinti è racchiuso nel motto dell'associazione: "Il vero aiuto per l'Africa è quello che serve per eliminare l'aiuto".
Edoardo ed Elisa, 34enni compagni nella vita e nella professione, sono un ortopedico e un’anestesista e la loro attività si è concentrato a Goma, città sulla riva settentrionale del Lago Kivu, con una popolazione di circa 250mila abitanti. Una zona, fortunatamente, non investita direttamente dal virus dell’Ebola ma dove sicuramente i problemi non mancano.
“Appena arrivati all’aeroporto siamo stati accolti dai volantini informativi sull’Ebola, però non ne abbiamo avuto la percezione visto che l’epicentro è nella provincia dell’Equatore (nord-ovest). La patologia più presente era la malaria, diffusa anche tra i bambini. Mentre noi diciamo di avere un raffreddore, loro devono affrontare quotidianamente questa malattia” ha premesso Elisa, che è poi entrata nel dettaglio: “In Italia, dal punto di vista ortopedico, siamo abituati a risolvere la maggior parte dei problemi grazie a screening neonatali. A Goma, invece, soprattutto sui più piccoli si possono riscontrare malformazioni molto gravi anche dai 6 ai 10 anni che non sono state curate adeguatamente e quindi è necessario intervenire chirurgicamente”.
Un’esperienza forte, che non solo gli ha permesso di aiutare queste persone ma anche di avere qualcosa in cambio: “La popolazione, oltre alle malattie, porta ancora i segni della guerra. Ma, nonostante le difficoltà, la gente è molto disponibile, si accontenta di poco e ne siamo tornati veramente arricchiti”.
Tante le immagini che hanno riportato nel cassetto dei ricordi dopo questa avventura, alcune delle quali hanno deciso di condividerle: “Mi ha particolarmente colpito come le persone non piangessero per il dolore dell’operazione, quanto per la fame. Capisci davvero che per loro le priorità sono ben diverse dalle nostre. Lottano per sopravvivere, rispetto a noi che, nonostante abbiamo tutto, non riusciamo ad essere appagati”.
E poi il sorriso sulle labbra, soprattutto quando in zona si è sparsa la voce del loro arrivo: “E’ attraverso le chiese che vengono trasmessi i messaggi, e appena lo hanno saputo in poco tempo sono arrivate centinaia di persone per curarsi o guarire i propri figli, compiendo viaggi a piedi anche di tre giorni”. Ma è quando Elisa ricorda i bambini che, a tratti, la voce le si rompe dall’emozione: “Per salutarci, parlando solo in swahili, tendevano il pollice all’insù dicendoci “jambo”, che può essere tradotto con un “ciao”. E’ diventato un po’ il nostro slogan e anche l’immagine che portiamo nel cuore”.