Germanà, il questore sfuggito alla mafia: non chiamatemi eroe, è il mio lavoro

 In un mondo dove i più venderebbero l’anima per essere definiti “eroi”, fosse anche solo per godere di un giorno di gloria, c’è anche chi rifugge quell’etichetta pure avendone titolo. “Ma quale eroe? Quella del poliziotto non era una vocazione. Dovevo lavorare e feci due concorsi, uno per la Marina e uno in Polizia. Vinsi quest’ultimo. Tutto lì. Poi ho cercato di farlo al meglio delle mie possibilità, questo sì”. Chiacchierare con il questore Calogero Germanà ha quasi l’effetto di un antidepressivo: ti mette di buon umore. Un po’ filosofeggia, un po’ sorride, quasi sempre sdrammatizza. Diventa praticamente inutile concentrarsi sul fatto che ventidue anni fa, il 14 settembre 1992, qualche settimana dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, l’uomo che hai di fronte sfuggì a un attentato ordito dai mafiosi del peggior rango (come il superlatitante Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano) scappando dall’auto sotto una pioggia di proiettili e gettandosi in mare a Mazara del Vallo. Quando ti risponde, ancora sorridendo: “Mi scusi sa, conosce qualcuno a cui non piace vivere? Quel giorno ho semplicemente cercato di salvarmi la pelle come avrebbe fatto chiunque”, ecco, quando ti risponde così ti mette spalle al muro. Ti viene quasi voglia di buttare via il taccuino. E lo stai davvero per fare quando aggiunge che “quando sento che c’è chi mi definisce superinvestigatore, beh mi viene da sorridere”.  
Rino Germanà non è uno che cerca la celebrità. Ama la normalità, ama la gente, ama le relazioni umane: “Mi piace fare il questore perché incontri tante persone e ognuna ti dà qualcosa e ti arricchisce”. E’ un fervido credente e adora la vita, “ogni attimo, non bisogna sprecare un minuto”. Lo farà anche quando tra qualche mese se ne andrà in pensione: “Mi dedicherò ad altro, ma sarò sempre lo stesso. Farò di tutto con contentezza”. 
Diventa difficile intervistare un personaggio, che è tale, ma che fa di tutto per non esserlo. Ma ci abbiamo provato comunque cercando di scoprire qualcosa in più sull’uomo, Germanà, sul suo vissuto, sulla mafia che lui ha combattuto in prima linea mettendo in gioco la vita e sui rischi di infiltrazioni mafiose nel nostro territorio testimoniati da alcuni recenti rapporti. 

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Questore, partiamo da quel giorno: 14 settembre 1992, il giorno dell’attentato. Che ricordo ha?
“Più che un ricordo è un giorno di memoria. Il ricordo è automatico. La memoria implica invece una riflessione tra ciò che eri e ciò che sei adesso. Tornando a quel giorno, penso che forse non ho saputo osservare al meglio quello che era il presente di allora, e magari non ho assunto un atteggiamento propositivo di reazione. Forse ho perso del tempo che dovevo dedicare di più alla conoscenza. Mi spiego: si erano verificate situazioni investigative che  forse non valutai compiutamente. Non riuscii a leggere bene il quadro di fondo su cui stavo operando. Forse se l’avessi fatto non ci sarebbe stato l’attentato e avremmo ottenuto risultati investigativi migliori. Ma questi sono ragionamenti che si fanno dopo e per questo non posso dire che sono rammaricato”.

Come è cambiata da allora la vita dell’investigatore Germanà?
“La vita la cambia perché uno pensa di vivere cent’anni, pensa che il male non gli appartenga, che le disgrazie riguardino gli altri e che a me non accadrà mai nulla. Invece quello che mi è successo mi ha portato ad apprezzare di più la vita, a non avere paura della morte, a “mordere” la vita gustando ogni attimo. Ma non in funzione egoistica, semmai solidaristica”.

Ha avuto paura?
“Non ho avuto il tempo di averla, ma non mi sento un eroe. In certe situazioni nessuno vuole morire e ognuno cerca di salvarsi, reagisce. Pur essendo stato un evento di sofferenza, oggi a distanza di tempo suscita anche momenti di gioia, specialmente nei miei famigliari, perché sono sopravvissuto. Ringrazio il cielo che per una coincidenza quel giorno non ci fosse in auto con me anche mia figlia. Quella gente non avrebbe avuto pietà”.

Ha mai più incontrato qualcuno dei suoi attentatori? Non certo Messina Denaro, ma Bagarella o altri?
“Mi era capitato di incontrarli prima dell’attentato, poi mai più”.

Il superboss Messina Denaro è latitante da decenni. Pensa che lo prenderanno prima o poi?
“Certo che lo prenderanno, ne sono sicuro. Non si può mettere in dubbio il lavoro di tanti investigatori che si stanno impegnando in una operazione del genere. Certo che lo prenderanno. Il bene alla fine trionfa sempre”.

E se un giorno lo dovesse incontrare?
“Gli direi di pentirsi. Sono una persona credente. Non potrei perdonare perché quello lo può fare solo Dio al quale risponderà dei suoi fatti commessi in vita”.

Chi sono i mafiosi?
“Gente malvagia e senza scrupoli che ha un unico obiettivo: trarre profitto con qualsiasi mezzo. A volte li facciamo più potenti di quanto non siano. Il potere esalta le  persone e il piacere più grande per un uomo malvagio è quello di togliere la vita a un altro uomo. I mafiosi affermano la loro volontà attraverso l'omicidio. E’ l'atto più potente al mondo”. 

A volte però si ha la sensazione che lo Stato sia inerme.
“Assolutamente no. La mafia verrà sconfitta definitivamente, ne sono sicuro. Lo Stato è più forte”.

Lavorò a stretto contatto con il giudice Paolo Borsellino. Chi era Borsellino?
“Avevo un rapporto speciale con lui. Nel suo sorriso rivedevo quello di mio padre. Era un magistrato serio, che dava tanto spazio e che si fidava dei suoi investigatori. Di me particolarmente. Il giorno della strage di via d’Amelio fu un colpo atroce”.

Quanto è difficile fare il poliziotto al sud?
“Fare il poliziotto è sempre difficile. E’ il mestiere più altruista del mondo. La gente chiama perché ha bisogno di aiuto. Il poliziotto non chiede mai chi sei. Prende e va a soccorrere. E spesso rischia la vita. Qualsiasi poliziotto rischia la vita, e lo fa anche qui a Piacenza, perché non sai mai cosa ti può capitare. Forse nel meridione c’è una percentuale di rischio maggiore perché si consumano altri tipi di reato, ma fare il poliziotto è il mestiere più difficile”. 

Nei giorni scorsi un report parlava di pesanti infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna e a Piacenza. Sorpreso? 
“Non penso che si possa dire che qui a Piacenza ci sia la mafia. Non mi pare che qui giornalmente si registrino denunce di estorsioni, attentati, incendi di magazzini che significano vitalità di un’organizzazione criminale. Come cittadino non le vediamo cose del genere. Si può però dire che ci sono infiltrazioni mafiose, questo purtroppo sì”.

Durante quel convegno è stato detto che “chi impedisce ai lavoratori di entrare a Ikea adotta un comportamento mafioso”.
“Vede, la libertà si misura dal reciproco rispetto e non può essere unilaterale. Così come non si impedisce alla gente di scioperare secondo le modalità previste dalle norme, altrettanto non si può impedire alle persone di andare a lavorare. Se uno lo fa, limita la libertà altrui e questo non è giusto”.

Sempre il giorno del convegno un autorevole relatore del report le si è avvicinato e ha esclamato: Germanà, è un onore, lei è un mito…
“Sì, è vero. E mi scappa ancora da ridere”.