“L’odio che ha generato gli orrori del nazismo è un pericolo attuale”

Oggi è la Giornata della Memoria e come ogni anno al Giardino intitolato proprio a questo evento, il Giardino della Memoria, sullo Stradone Farnese a Piacenza, si è tenuta la cerimonia istituzionale per ricordare l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, data simbolica assurta al ricordo delle vittime della Shoah. La cerimonia è partitai con l’intervento del sindaco Paolo Dosi seguito poi da quello del presidente della Provincia Massimo Trespidi e di alcuni studenti che hanno preso parte, nel 2013, al viaggio della Memoria.

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A precedere questo appuntamento ufficiale, alle 9 di questa mattina si è tenuto nella cornice dell’auditorium Sant’Ilario, un incontro rivolto alla cittadinanza e agli studenti, con la testimonianza di Umberto Abenaim – che ha raccontato la storia del padre Carlo – e la partecipazione di Carla Antonini, direttrice dell’Istituto storico della Resistenza. Un’iniziativa che intreccia “ricordi e immagini di deportazione e di salvezza”, all’approfondimento sull’applicazione delle leggi razziali nel Piacentino. 

A seguire, pubblichiamo inegralmente gli interventi del sindaco Dosi e del presidente Trespidi. 

L'intervento del sindaco Paolo Dosi

“Un filo spinato impedisce che qui dentro sboccino fiori”. Sono le parole di Peter, un bambino ebreo che scrisse la sua poesia nel villaggio ghetto di Terezin, a qualche decina di chilometri da Praga. “Non posso volare”, proseguiva, immaginando il mondo che sorrideva all’esterno, senza sapere che un giorno i suoi pensieri sarebbero riusciti, immateriali eppure così intensi, a oltrepassare quel recinto. “Non voglio morire”, concludeva, ma il sogno del suo futuro si sarebbe interrotto poco tempo dopo, per mano dei soldati nazisti.

Una mano armata da un’ideologia brutalmente xenofoba, impietosa nell’ostinata e terribile crudeltà del suo progetto di sterminio, folle nella spaventosa pianificazione della violenza e dell’annullamento della persona, della sua dignità, di quella diversità che ci rende unici. Furono 15 mila, i ragazzini che sfiorarono la quotidianità di Peter tra le mura di Terezin. La maggior parte compì l’ultimo viaggio verso le camere a gas dei lager. Meno di un centinaio sopravvisse. Oggi, in questa simbolica ricorrenza – nel 69° anniversario della scoperta di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche – siamo qui per ricordare quei bambini mai diventati adulti, e con loro tutte le vittime di quell’immane tragedia, di quel disegno criminale e inumano che fu la Shoah.

La nostra presenza esprime sentimenti che ci accomunano nella solidarietà per coloro che hanno subìto – a causa della fede religiosa, delle radici etniche, dell’orientamento sessuale o delle proprie scelte politiche – indicibili e vili umiliazioni, ma è anche il segno di una consapevolezza che si fa indignazione e difficoltà di capire al tempo stesso, mentre continuiamo a domandarci come si sia arrivati a tanto. “Se comprendere non è possibile – ha affermato Primo Levi – conoscere è necessario”. E lo è più che mai oggi, perché i testimoni di quell’orrore sono sempre meno, perché è nostro dovere morale e civile ascoltarne la voce e raccoglierne l’eredità, perché in una società nella quale tutto appare fugace e frammentario ci sono cose che non possono essere cancellate, rispetto alle quali non si può, semplicemente, voltare pagina come se il capitolo fosse chiuso.

Questo è, il Giorno della Memoria. L’abbraccio ideale a coloro che hanno sofferto la crudele banalità e l’insensatezza delle leggi razziali. La condivisione di un dolore mai sopito che è quello di ogni famiglia spezzata, sradicata dalla propria casa, allontanata dalla propria comunità. Il rifiuto di accettare le aberrazioni di un marchio impresso sulla pelle. La responsabilità, che appartiene a ciascuno di noi, affinchè ciò che è stato non possa accadere di nuovo: “Forse non farò cose importanti – ha scritto Italo Calvino ne “Il sentiero dei nidi di ragno” – ma la storia è fatta di piccoli gesti anonimi (…). Tutte le cose che farò prima di morire (…) saranno pezzetti di storia, e tutti i pensieri che sto facendo adesso influiscono sulla mia storia di domani, sulla storia di domani del genere umano”.

Ogni volta che non ci fermiamo all’apparenza o al pregiudizio, ogni volta che sosteniamo il riconoscimento di un diritto altrui, ogni volta che cerchiamo di approfondire un problema che non ci riguarda direttamente, contribuiamo a costruire una società più giusta, inclusiva, coesa. In fondo, partecipare a questa cerimonia sarebbe poca cosa se la memoria non fosse in grado – come invece avviene – di scuotere le nostre coscienze, di toccare le corde più profonde del nostro animo.

L’aridità ottusa del negazionismo, l’ignoranza sottesa alle nuove forme di razzismo e ai messaggi di chi, ancora oggi, inneggia al nazifascismo, possono fiorire unicamente sotto la coltre dell’indifferenza, in quello stesso silenzio che ammantava di spettrale calma i campi di concentramento e il fumo delle loro ciminiere. “Qui era sempre così tranquillo. Sempre. Quando bruciavano ogni giorno 2000 persone, ebrei – si legge in “Shoah” di Claude Lanzmann – era altrettanto tranquillo. Nessuno gridava. Ognuno faceva il proprio lavoro”.

Ecco, credo che onorare il Giorno della Memoria significhi non accettare più quel silenzio. Non solo coltivando il ricordo, non solo facendo sì che le nuove generazioni conoscano la Storia e possano trarne insegnamenti profondi, per la vita, ma anche abituandoci a posare uno sguardo più attento e sensibile sulla realtà che ci circonda, sia essa la solitudine, il disagio, l’indigenza di conoscenti o estranei a noi vicini, sia invece il dramma di comunità e Paesi che non sono nostri. Perché è soprattutto questo, che dobbiamo imparare dal passato: al di là di ogni specifica differenza – culturale, religiosa, di provenienza geografica – valori quali la pace, la tolleranza e la convivenza civile sono, e non può essere altrimenti, universali.

 

L'intervento del presidente della Provincia Massimo Trespidi

 “Perché dobbiamo ricordare? E che cosa bisogna ricordare?”. Questi quesiti, inseriti dal giornalista e scrittore italiano Vittorio Foa nell'introduzione di “Se questo è un uomo” di Primo Levi racchiudono il senso originario e il punto di partenza della Giornata della Memoria. “Bisogna ricordare il Male nelle sue estreme efferatezze e conoscerlo bene anche quando si presenta in forme apparentemente innocue” risponde Foa. Dello stesso avviso anche la filosofa ebrea Hannah Arendt che spiegava: “Il Male non sempre ha un aspetto orripilante, mostruoso. Ma può assumere i connotati di uomini banali, insignificanti. Fantocci incapaci di intelletto e di umana pietà che si sono lasciati sedurre da un meccanismo deciso da altri senza suscitare in loro il minimo sussulto della coscienza”. E' così. E' necessario oggi, a decenni di distanza dalla tragedia dell'Olocausto, non nascondere quel Male ma ricordarlo per sconfiggerlo, se possibile, almeno nel nostro animo.

E' preciso compito che ogni anno spetta in questo Giorno della Memoria soprattutto ai rappresentanti delle istituzioni ricordare ciò che è stato, confrontarsi con un dolore che deve essere sempre più collettivo e non individuale. Ho letto in questi giorni la storia di Etty Hillesum, una ragazza olandese vittima della Shoah che avrebbe compiuto nel 2014 cento anni. La giovane ha lasciato in un diario e in diverse lettere una testimonianza unica e mai letta di speranza cristiana sgorgata proprio dal campo di concentramento. Nel campo assiste i malati e le famiglie, organizza l'arrivo dei pacchi e fa compagnia ai bambini. Si spende totalmente. “Siamo partiti cantando”, sono le sue ultime righe su un biglietto gettato dal treno per Auschwitz. Il suo dolore individuale, profondamente trasformato e divenuto lotta positiva e inno alla vita, ha il diritto di essere conosciuto e di divenire quindi collettivo. “Eppure la vita è splendidamente buona – scrive ancora – nella sua inestricabile complessità. Occorre pensare con il cuore perché forse possediamo altri organi oltre la ragione: lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca”.

Questo pomeriggio nella sala del Consiglio provinciale è in programma un incontro con l'autrice israeliana Nava Semel, che presenterà a Piacenza il suo ultimo libro “Testastorta”. Nava Semel fa parte della seconda generazione dell'Olocausto; se così si può dire, è figlia dell'Olocausto: la madre e il padre furono deportati e poi sopravvissuti ad Auschwitz e lei ha vissuto l’infanzia all'ombra del grande campo di sterminio. La tragedia della Shoah è entrata a far parte intimamente della sua identità, se ne è impossessata fino a condizionarne per sempre l'esistenza. Oggi Nava Semel è una scrittrice: lo è da quando a 26 anni ha deciso di svelare la storia dei genitori, di conoscerne fino in fondo la tragicità. Lei stessa ha ricordato in una recente intervista: “Mi accorgo che l’Olocausto è parte della mia pelle, della mia anima; è la mia identità e mi rendo conto di quanto sia difficile trasmetterne la memoria”.

Da qui, dalla difficoltà e insieme dall'esigenza di trasmissione della memoria di quello che è stato, entra in gioco la nostra società: sono le istituzioni, il mondo della scuola con gli insegnanti e gli studenti e in generale la comunità in cui viviamo a diventare testimoni attivi fondamentali di un evento che deve essere tramandato. L'Umanità, spiega ancora nella medesima intervista la scrittrice,  “è a continuo rischio di Olocausto, ogni volta che qualcuno ne nega l’esistenza”. Basti pensare alla violenza e alle uccisioni cui sono sottoposti oggi molti cristiani in diversi Paesi – dall'Iraq al Pakistan, dalla Siria all'Africa centrale fino al Sudan – nella generale indifferenza e spesso in un silenzio colpevole della comunità internazionale. “Il rischio peggiore è, dunque, il negazionismo; insieme al tentativo di rendere eventi storici e persone irrilevanti”.

Con l'evento di oggi prosegue quello che la Provincia di Piacenza aveva iniziato un anno fa – sempre in occasione della Giornata della Memoria – con l'incontro con Uri Orlev, deportato e sopravvissuto all'orrore del campo di Bergen-Belsen: una serie di incontri con i testimoni dell'Olocausto. Orlev, qui a Piacenza di fronte ad una vastissima platea di studenti aveva detto: “In una situazione infernale se ci sono persone buone vuol dire che esiste una speranza per l’umanità”. Quella speranza deve essere coltivata mai stancandosi di ascoltare quello che i testimoni della Shoah hanno da raccontare. Dal loro dolore, che chiede di uscire, nasce la lezione più importante: la memoria non può andare perduta. Non c'è traccia di vittimismo né di eroismo nel racconto dei testimoni: c'è solo la capacità di queste persone di credere nella vita nonostante la morte e l'orrore siano stati compagni ingombranti del primo tempo della sua vita. Da questo, dall'amore per la lettura e dalla curiosità viva di una mente che sa pensare, scaturisce la salvezza.

A voi ragazzi un messaggio speciale: non smettete di avere curiosità, di studiare e di leggere: la conoscenza è antidoto dell'ignoranza che è origine del male e causa dei pregiudizi. Ad ognuno di voi è affidato un compito importante: tramandare quello di cui verrete a conoscenza per fare in modo che la testimonianza di chi ha vissuto l'orrore dell'Olocausto non si perda. E, ancora, per far sì che quanto scritto da una giovane ragazza poco più grande di voi e lanciato da un finestrino di uno dei troppi vagoni della morte non vada perduto.