Cresce l’attesa, anche quest’anno e per la sesta edizione consecutiva, l’attesa per il Festival del diritto. Una rassegna che, come sempre, porterà a Piacenza numerose personalità del mondo politico, istituzionale, del volontariato e della società civile che si confronteranno su un tema quanto mai attuale: “Le incertezze della democrazia”. Dal 26 al 29 settembre (il programma in allegato a fondo pagina), la nostra città sarà quindi protagonista in Italia del dibattito pubblico, per un evento coordinato dal Responsabile scinetifico Stefano Rodotà, che non ha certo bisogno di presentazioni. Giurista e politico, lo scorso anno arrivò ad un soffio dal ricoprireil ruolo di presidente della Repubblica. E’ stato lui stesso a presentare la nuova edizione del festival del diritto, con il testo riportato di seguito.
GLI OSPITI DI SPICCO IN SINTESI – Da Gustavo Zagrebelsky, che giovedì 26 settembre alle 18 terrà a battesimo, nella sala dei Teatini, il programma principale dell’edizione 2013 – intervenendo sul tema “Democrazia, scena o messinscena?” – a Luciano Canfora, cui è affidata domenica 29 la chiusura della kermesse: alle 19.30, nel salone di Palazzo Gotico, analizzerà “La democrazia alla prova dei sistemi di voto”. Nel mezzo, quattro giorni intensi tra incontri, dibattiti, momenti di confronto e partecipazione del pubblico, ad animare il Festival del Diritto, quest’anno incentrato proprio su “L’incertezza della democrazia”. La prima serata della manifestazione vedrà anche la partecipazione del priore della Comunità di Bose Enzo Bianchi, chiamato tra i “Testimoni del tempo”. Il suo intervento, intitolato “Cammini di umanizzazione”, approfondirà la necessità di “credere nell’uomo… accettando di guardare oltre il nostro interesse immediato, verso un orizzonte comune e una speranza condivisa”.
Il mattino seguente, venerdì 27 sarà il coordinatore scientifico Stefano Rodotà a parlare di diritti e della loro valenza nel mondo globale contemporaneo, mentre il sindaco Paolo Dosi introdurrà la conferenza dell’economista Stefano Zamagni su “Mercato e democrazia”. Al sociologo Ilvo Diamanti, nel pomeriggio di venerdì, il compito di rispondere all’interrogativo: “A che punto è la democrazia italiana?”, mentre il comico e scrittore Giacomo Poretti rifletterà su “I forzati della democrazia” e, in serata, il medico fondatore di Emergency Gino Strada approfondirà il significato di “Diritto alla pace, diritti per la pace”.
Sabato 28, tra i tanti appuntamenti, quello con Remo Bodei sulla “Vulnerabilità di massa, nuova dimensione della democrazia”, il dialogo con Mario Dogliani e Nadia Urbinati sulle origini del populismo e la crisi della rappresentanza politica, il focus di Sergio Romano su “La crisi della democrazia e il potere dei giudici”. Alle 20, per il ciclo “Testimoni del tempo”, ospite il presidente della Camera Laura Boldrini, che con l’introduzione della giornalista Monica Maggioni sarà chiamata a spiegare perché “Non c’è democrazia senza dignità”.
Nella giornata conclusiva della kermesse, domenica 29, il ministro per le Riforme Istituzionali Gaetano Quagliariello, introdotto dall’editorialista de “Il Sole24Ore” Stefano Folli, illustrerà “Quali riforme per quale democrazia”, mentre i registi Marco Bellocchio e Roberto Andò dialogheranno con Stefano Rodotà su “Come narrare l’incertezza della democrazia”. Nel pomeriggio, prima dell’intervento di chiusura di Luciano Canfora, ci sarà spazio per gli incontri con il giurista Cesare Mirabelli e con il giornalista Luigi Ferrarella.
Particolarmente ricco di ospiti illustri anche il programma partecipato, proposto da realtà associative, istituzioni scolastiche e culturali: tra gli altri, Simonetta Agnello Hornby parlerà di lotta alla violenza domestica contro le donne, Gherardo Colombo affronterà il concetto di democrazia “verso il potere di tutti”, Renato Mannheimer e Gianfranco Pasquino dibatteranno con Sofia Ventura de “La repubblica che abbiamo e che vorremmo”, Maurizio Chierici sarà tra gli ospiti del focus sul tema “Senza verità non c’è democrazia” e Piercamillo Davigo interverrà sul rapporto tra corruzione minacce alla stabilità della democrazia.
LA PRESENTAZIONE DI STEFANO RODOTA’ – “Proprio mentre sembra diventata ormai un dato ovvio e indiscusso, almeno in Occidente, la democrazia sta vivendo una crisi di legittimazione sostanziale, come uno svuotamento dei suoi presupposti di senso, che ne rende incerte le prospettive.
Proprio mentre sempre più nel mondo, e anche vicino a noi, sull’altra sponda del Mediterraneo, c’è chi è disposto a mettere in gioco la vita per contrastare un potere oppressivo, i regimi politici europei sembrano sempre più minacciati dall’interno dalla disaffezione, dalla sfiducia, da un uso anti-democratico della democrazia, da un preoccupante abbassamento del livello degli anticorpi rispetto al rischio di derive neoautoritarie e alla negazione dei diritti.
Questa crisi, che per taluni osservatori sembra annunciare una transizione post-democratica, impone una riflessione profonda sul rapporto attuale tra cultura democratica e ideologie politiche, forme giuridiche e simboli, democrazia e globalizzazione, etica pubblica e pluralismo, capitalismo e autonomia della politica.
La democrazia non è questione (solo) di regole e procedure. Regole e procedure esprimono e garantiscono “principi”, radicati in un sostrato culturale ed etico. La democrazia costituzionale presuppone un ethos costituzionale condiviso, avvertito come normativamente impegnativo. Il principale presidio della democrazia è lo “spirito civico” diffuso, popolare. Prendere sul serio la spinta propulsiva della Costituzione (il principio di uguaglianza, la dignità della persona, la centralità del lavoro ecc.) è la principale risorsa per rilanciare la democrazia italiana, così come la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea costituisce la bussola per tutti colore che vogliono evitare una chiusura tecnocratica e antisociale dell’Europa, che rischia di porla in rotta di collisione con i suoi popoli.
Quello di democrazia è un concetto normativo, un ideale che contiene una promessa di emancipazione. Certo, l’idea pura di autogoverno (obbedire a se stessi) è illusoria, poco realistica, perché presuppone l’abolizione della distinzione governanti-governati e l’azzeramento delle élites. Ma nella democrazia rappresentativa c’è un’aspettativa fondamentale che non può essere disattesa, pena la perdita di legittimità: i cittadini debbono potersi riconoscere nei loro rappresentanti. Per questo la rappresentanza politica non deve mai chiudersi nella propria autoreferenzialità, ma essere veramente “rappresentativa”, aprendosi alle istanze che provengono dal basso, dalla cittadinanza. Esse non solo non possono essere ignorate, ma devono entrare sul serio nel circuito della politica istituzionale, in un rapporto biunivoco tra partiti e società, istituzioni e popolo.
La storia della democrazia è complessa, ricca di trasformazioni e anche di delusioni: la democrazia degli antichi, nata nel contesto di piccole comunità politiche omogenee, non è certo quella dei moderni, sviluppatasi nel seno degli Stati nazionali; le aspettative di partecipazione hanno dovuto sempre scontrarsi con limiti, esclusioni, tendenze oligarchiche (anche all’interno dei partiti di massa), opacità degli apparati e delle istituzioni. Da un certo punto di vista, la democrazia è strutturalmente aperta all’incertezza. E’ in assoluto la forma di governo e il principio di organizzazione politica più sensibile alla trasformazioni sociali, più esposto agli effetti dell’individualizzazione della società, all’impatto di identità mutevoli e di differenze che chiedono ascolto e riconoscimento (si pensi alle sfide poste dai diritti di genere, dalle forme di famiglia post-tradizionale, dalle scelte bioetiche, dalla società multiculturale). Quindi, in qualche modo, la democrazia è sempre incerta, mobile, in qualche modo instabile. Il problema, oggi, è che incerti sembrano diventati anche i suoi presupposti di valore stabili, i contesti e i soggetti che l’hanno resa possibile nel secondo Novecento, le possibilità di decisione e governo dei processi economici. Se la democrazia è chiamata ad assicurare consenso per decisioni prese altrove, in alto (la BCE, il Fondo Monetario, la troika ecc.), in una sfera di potere opaca nella quale pubblico e privato si confondono, la politica perde inevitabilmente possibilità di azione e credibilità. Se la volontà popolare viene commissariata in nome dello stato di necessità, a essere messa in discussione è la credenza stessa dei cittadini nel valore della democrazia. Se si afferma un nuovo senso comune conformista, che nega i conflitti e le identità civili, si determina un’incertezza che non è apertura creativa all’innovazione, ma disorientamento, senso d’impotenza, perdita di fiducia nelle istituzioni. Il rischio è che un legittimo e proficuo desiderio di partecipazione in prima persona, se negletto, conduca al rifiuto generalizzato della delega, a un pericoloso vuoto di rappresentanza generale.
E’ necessario riconoscere e indagare con rigore le cause dell’incertezza: la mancanza di lavoro che mina la coesione sociale; il fatto che sempre più spesso diritti sociali e beni comuni siano sacrificati a poteri finanziari che non rispondono ai cittadini; la crisi della sovranità a cui non corrisponde affatto una mitigazione del potere, che torna anzi a mostrare in modo crescente un volto truce (attraverso la costruzione di nuovi muri, il ritorno degli arcani imperii, l’assuefazione alla guerra, lo sdoganamento di prassi discriminatorie, la risposta in termini di ordine pubblico al conflitto sociale); la grande difficoltà a produrre e soprattutto a garantire effettivamente regole in grado di frenare il potere dei colossi che dominano l’economia globale; il deficit di legittimazione democratica che mina la credibilità delle istituzioni della globalizzazione. Per reagire a queste tendenze, è possibile rilanciare su scala globale forme di mobilitazione e istituzionalizzazione democratiche? E in che modo? Quale contributo può venire dai fronti più avanzati del costituzionalismo contemporaneo (pensiamo alle esperienze sudamericane) e dalla riflessione sui beni comuni? E ancora: il potere della proprietà e della ricchezza sta minacciando la democrazia? In quale direzione si può ridefinire il rapporto tra questa e il mercato? Privatizzazione della politica, peso crescente delle lobbies, contagio della corruzione e dell’economia criminale, sono tutti effetti di uno squilibrio crescente tra autonomia della decisione democratica e interessi economici, a scapito della prima. La stessa questione dei costi della politica va inquadrata in questo contesto più vasto.
Come insegnava Bobbio, la democrazia è esercizio del potere in pubblico: ovvero un esercizio del potere non arbitrario, sottoposto al principio di legalità, senza segreti e impunità, criticabile e perciò contendibile, sottoposto costantemente al controllo e alla verifica assicurati da un dibattito pubblico aperto e pluralista e dal bilanciamento dei poteri. Com’è possibile garantire una trasparenza effettiva e non di facciata delle istituzioni politiche? Come si ridefinisce oggi questo tratto fondamentale delle democrazia, alla luce delle innovazioni e delle opportunità di interazione offerte da internet? Stiamo andando verso una democrazia del web, oppure la rete consente sì di aprire nuovi spazi di partecipazione, da valorizzare e integrare nella democrazia rappresentativa, ma certo non sostituivi di essa? E quali sono le ambiguità e i rischi insiti nell’immaginario della rete? Come evitare che il popolo si riduca a pubblico, il consenso a sondaggio, la politica alla sua personalizzazione?
La democrazia funziona se sono assicurate le sue precondizioni: un effettivo pluralismo, la limitazione delle concentrazioni di potere (politico, economico, ideologico-comunicativo), politiche pubbliche volte a garantire gli standard minimi dei diritti di cittadinanza (occupazione, salute, istruzione, abitazione, retribuzione dignitosa, democrazia nei luoghi di lavoro). Soprattutto, la democrazia presuppone una formazione civile, che argini i rischi di decivilizzazione (ricerca di capri espiatori, pregiudizi razzisti, omofobi e sessisti, ossessioni identitarie) che attanagliano le nostre società, in virtù della perdita di sicurezza sociale e di riferimenti simbolici credibili. Siamo di fronte a una democrazia impoverita e messa alla prova. Le disuguaglianze crescenti, la svalutazione degli obblighi di solidarietà, l’emergere di fratture generazionali, la precarizzazione delle vite e la perdita di qualsiasi fiducia nel futuro svuotano la rappresentanza perché determinano una sorta di secessione etica e sociale. La democrazia è vitale solo se non nega i problemi e le aspettative dei cittadini, se non si chiude in un bunker, ma accetta il conflitto delle idee e degli interessi (ovviamente non violento né distruttivo), riconoscendolo come un decisivo fattore vivificante, che può e deve essere portato a sintesi politica solo se viene preso sul serio. La democrazia è l’opposto della passivizzazione. Se il bisogno di essere ascoltati, attivi, partecipi non trova degli alvei adeguati, che il diritto può contribuire a costruire, le forme democratiche soffrono e rischiano di non tenere più.
Il Festival del Diritto del 2013 ha scelto di affrontare questi problemi di fondo della nostra vita civile, che costituiscono il nodo di Gordio del presente, non solo per l’Italia, ma per l’intera Europa. Nella convinzione che i nodi è preferibile scioglierli, piuttosto che tagliarli, che è preferibile puntare su ragioni e mediazioni, piuttosto che su una semplificazione verticale dello spazio politico. Per questo abbiamo chiamato a discutere apertamente, senza ipocrisie né sterili chiusure, tante personalità portatrici di sensibilità, competenze, orientamenti culturali diversi, valorizzando anche quest’anno quella interazione tra scienza giuridica e altri apporti disciplinari che costituisce, insieme all’ampia partecipazione dal basso di tante realtà associative e di volontariato presenti sul territorio, la cifra originale del nostro Festival”.