La favola di Ascantini in un libro, che attraverso lo sport insegna a vivere

Franco Ascantini è un maestro, uno sportivo ed ora anche un divulgatore di conoscenza. Perché, attraverso “Franco come il rugby”, lungo dialogo avuto con lo scrittore Antonio Falda e diventato un libro uscito da qualche giorno, l’ex allenatore dei Lyons cerca di tenere fede a quanto scrisse il noto giornalista Giuseppe D’Avanzo, anch’egli ex giocatore e amante della palla ovale, prima dei Mondiali del 2007: “Noi appassionati del rugby siamo persuasi che questo gioco possa migliorare l'Italia".

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In occasione dell’uscita del libro, ma soprattutto in vista della presentazione il 13 settembre a Piacenza alle 18.30 al Palabanca per i 50 anni dei Lyons, abbiamo avuto anche noi un breve ma intenso dialogo con l’autore ed il protagonista del volume. (Interviste ascoltabili e scaricabile a fondo pagina).

E non potevamo che partire dalla sua esperienza passata negli anni ’90 nella società bianconera: “Ricordo soprattutto l’ospitalità della società – esordisce Ascantini – così come di tutta la città. I lunghi giri in bicicletta, dove mi fermavo con tante persone a parlare. Avevo trovato una famiglia, dalle signore della cucina ad alcuni indimenticabili come Fanzola e Dadati. Persone con le quali ho condiviso momenti belli e brutti, anche se non eravamo campionissimi”.

Il suo credo è semplice: valorizzare i giovani, italiani, ed educarli fin da piccoli. Sembra facile, eppure, ha sottolineato più volte, in Italia non è ancora così: “La componente fondamentale è che i giovani del club diventino i titolari, senza buttare via soldi per gli stranieri – che io chiamavo allora ‘americani’ – anche perché allora venivano dei veri campioni, poi è diventato incredibile. Stranieri che nel loro paese non avrebbero giocato neppure nella loro società. Sulla valorizzazione dei giovani non ho mai derogato e a Piacenza è sempre stato recepito appieno”.

Ma per fare ciò, ha poi ribadito con forza Ascantini, bisogna avere il supporto in primo luogo delle istituzioni: “Nei paesi anglosassoni, già alle scuole, trovi due o tre campi sportivi – di cui uno o due di rugby – perché ritengono che l’attività motoria sia una componente fondamentale della formazione del cittadino. Da noi è solo estetico”.

E infine l’identità, che spesso viene copiata sempre dall’estero soprattutto a livello professionistico, senza tenere conto delle peculiarità tutte italiane: “Il problema di fondo è che le società non hanno le strutture per insegnare rugby ai figli dei 70mila che vanno a vedere la nazionale all’Olimpico. E’ il limite attuale. E poi manca una scuola tecnica rugbistica italiana. Copiamo la scuola neozelandese, o sudafricana e poi ogni tanto arriva un francese che ci spiega come dobbiamo muoverci in campo. E così facciamo fare palestra a ragazzi di 13-14 anni, parliamo di altezza e di peso, pazzesco. Mentre invece ci sono tanti ragazzini che senza tutto questo ma con una palla in mano sanno superare qualsiasi ostacolo”.

Insegnamenti che vanno a cozzare con la società dell’immagine, dalla quale lo sport non è esente, ma che paiono essere gli unici per tornare ad un più sano rapporto con tutte le discipline. Come ha detto ai nostri microfoni anche l’autore del libro, Antonio Falda: “La vita professionale del professor Ascantini, lunga 60 anni, è un pretesto per raccontare mezzo secolo di rugby e riportare concetti a noi cari: un allenatore è un educatore, nel rugby è fondamentale il rispetto dell’avversario e nelle scuole lo sport deve avere la stessa importanza della matematica o dell’italiano”.

Franco Ascantini è stato un innovatore nell’insegnamento del rugby e ha scritto la storia ovale da Napoli a San Donà di Piave, da Benevento a Calvisano, Arezzo, Viterbo, Cagliari, Piacenza, Roma, fino alla Nuova Zelanda. E ora molti dei suoi insegnamenti sono contenuti in “Franco come il rugby” (Absolutely Free Editore, 207 pagine, 14 euro), un libro che racconta l'emozionante ascesa di questa leggenda del rugby italiano, tra campi pietrosi e pozze di fango di tutta Italia, della sua passione e della capacità di trasmetterla. Di una vera e propria missione cominciando, appunto, dai bambini.