Erano le 11 di martedì 19 giungo 2012 quando il curatore fallimentare Mario Spezia si recò al Palazzo di Giustizia in via del Consiglio per depositare un faldone di carte che di fatto sanciva la fine del Piacenza Calcio. Nel preciso momento in cui quel faldone fu lasciato cadere sulla scrivania del giudice Maurizio Boselli il Piacenza Calcio, il nostro Piacenza Calcio, cessò di esistere. Quasi un secolo di storia, di soddisfazioni, di grande calcio cancellati. Nessuno, nessuno in città provò a salvare quella tradizione. O meglio, qualcuno sostenne di volerlo fare: avvoltoi provenienti da chissà dove che nessun’altra intenzione avevano se non quella di succhiare le ultime gocce di sangue da una lupa che piano piano stava esalando l’ultimo respiro.
Ci fu solo un gruppetto di persone che fece quadrato intorno a quel simbolo: pur consapevoli che il viaggio biancorosso stava ormai finendo, queste persone sapevano di dover lottare fino all’ultimo…perché non si sa mai, perché bisogna continuare a combattere fino alla fine, non importa poi cosa succederà. Però bisogna provarci. Mancò poco che alcuni di loro trasferissero la propria residenza allo stadio Garilli per monitorare 24 ore su 24 i movimenti, la situazione, per cercare di conoscere ogni cosa su coloro che tentavano di approcciarsi alla società. E in effetti tanti sorrisi falsi vennero presto scoperti…e chi sorrideva cacciato. Alcuni decisero di riunirsi in un comitato: se i piacentini che hanno i soldi non hanno interesse, ci devono pensare in qualche modo i ‘normali’ cittadini. Ognuno a mettere 10, 20 euro e sperare che potessero servire a qualcosa. E in effetti qualcosa cominciò a muoversi. Il Piacenza Calcio era fallito, certo, ma con quei soldi, raccolti con fatica, si poteva acquistare il marchio, i colori, la storia…insomma, la tradizione. E’ brutto dire “acquistare la tradizione”, ma se il campo è zuppo di pioggia si deve giocare coi tacchetti di ferro, no?
Ora si trattava di decidere in quali mani riporre quella gloriosa eredità. Tre le proposte, provenienti da presidenti di altrettante squadre di calcio piacentine. I supporter scelsero i fratelli Marco e Stefano Gatti che trasformarono la loro Libertas Spes in quella che da lì in poi fu conosciuta come Lupa Piacenza. Venne costruita una vera e propria macchina schiacciasassi. Un organico in grado di allacciare i ponti con la vecchia tradizione biancorossa (vedi Dede Valla, tifoso del Piace forse ancora prima di nascere) e allo stesso tempo di gettare una pietra sopra quel calcio orrendo che portò al fallimento i biancorossi: tra tutti spicca la vicenda di Daniele Serio che poco tempo dopo un incredibile goal da centrocampo contro il Lentigione fu obbligato a lasciare la squadra, non per soldi, non per calciomercato, ma per motivi di lavoro. Se questo non è calcio genuino…
E poi ci sono loro. Quella folla di folli che invece di andarsi a vedere il Milan, l’Inter o la Juve, sprecava le proprie domeniche a vedersi una partita di Eccellenza. Tutte le domeniche a cantare, indesiderati quando si trattava di giocare in casa d’altri, sballottati qua e là come un SuperTele dal vento. Partite viste in tutte le condizioni possibili, passando dallo stadio da serie A di Reggio Emilia al piazzale di Noceto. E poi tribune stracolme incapaci di contenere tutti, e ancora impianti sportivi dove il grido “Il Piace è, tutto per me” creava eco roboanti tra case e palazzi. Sono i tifosi: gli ultras e anche le tante persone che durante le partite se ne stavano sedute ma che al coro “Tu sei fantastica, superfantastica” non riuscivano a dire di no. E allora era un battito di mani incessante, mille voci all’unisono. E poi le messe di don Davide e qualche “barbaro” che ogni tanto si concedeva a fine partita scorribande attraverso i verdi prati calcistici. Una compagine di amici, uniti dalla malinconia di vedere la propria squadra in una categoria così bassa, ma allo stesso tempo consapevoli di essere qualcosa di speciale, di unico, definizione pratica dell’espressione “Non mollare mai”. Qualcuno poteva pensare che sì, all’inizio del campionato, a muovere il popolo biancorosso fosse la curiosità, l’eccitazione del momento, la novità…no. Domenica dopo domenica il popolo biancorosso era sempre più numeroso, sintomo di “una malattia che non va più via”…
E poi nemmeno in serie A si vede un legame così forte tra tifosi, giocatori e società…dopo un goal la prima cosa che al realizzatore di turno veniva in mente di fare era correre verso il settore, arrampicarsi sulle transenne e rischiare l’ammonizione solo per condividere una gioia immensa con un abbraccio. E poi la bellissima maglia nera a bande biancorosse, che i fratelli Gatti hanno voluto fossero i tifosi a disegnare: un piccolo gesto ma di portata enorme oggigiorno e che non è passato sotto silenzio. E poi comunque, al di là della maglia, un rapporto tra tifosi e società finalmente onesto, trasparente e serio.
Un rapporto che si pensa e si spera continuerà ancora a lungo, perché adesso c’è la serie D. Una categoria che presenterà insidie ben maggiori dell’Eccellenza, squadre più ostiche, tifoserie avversarie che da questo punto di vista limeranno ogni vantaggio avuto finora. Non so quando si tornerà nel calcio professionistico e francamente non importa. Ciò che importa è che il Piacenza Calcio è davvero rinato. Non si parli più di “legame” con il vecchio Piace, o di “eredità”…perché questo E’ il Piace.