Il giornalista piacentino e collaboratore di Radio Sound Gianfranco Salvatori era tra i quattro colleghi rapiti il 6 gennaio in Libano, dove si trovano insieme ai soldati italiani in missione Onu Unifil. Gli altri sono Mario Rebeschini, presidente dell’Associazione italiana fotoreporter, Elisa Murgese, cronista di Radio Popolare e Left e la fotografa Rossella Santosuosso. Salvatori in particolare è al seguito degli sminatori del Genio pontieri di Piacenza con i quali ha già partecipato dal 2009 a diverse missioni in zone di guerra, dall’Afghanistan al Kosovo e ancora in Libano; missioni che si sono tradotte in reportage pubblicati dall’allora quotidiano piacentino La Cronaca. Domenica pomeriggio, dunque, il gruppo di cronisti e fotografi di cui fa parte Salvatori, si trovava con i soldati su alcuni mezzi in un villaggio nella zona di Shama, area controllata dagli hezbollah, quando è stato fermato da almeno venti persone che hanno chiuso la strada con le auto.
Abbiamo contattato lo stesso Gianfranco Salvatori a cui abbiamo chiesto di raccontarci quei concitati momenti.
«Eravamo in viaggio di ritorno alla base di Shama, dove si trova il comando del settore Ovest della missione Unifil, a bordo di due VM 90 (mezzi di trasporto dell’esercito) dipinti di bianco e con le insegne Onu. A bordo quattro giornalisti, sei soldati e un tenente colonnello. Non era una pattuglia o un altro tipo di missione: i soldati avevano scortato reporter e fotografi a vedere la messa greco cristiana di Ayroun e quella cristiano maronita di Rmeich. Tornando, un maledetto errore ci porta in quel piccolo paese, reso quasi invisibile dalla pioggia fitta, dalle nubi basse e dal freddo».
«Un uomo trae in inganno i veicoli indicando una strada che si rivelerà poi un vicolo stretto di circa 80 metri di lunghezza in cui il gruppo resterà intrappolato. Lo stesso uomo si pone davanti al primo mezzo e impone l’alt prendendo in mano una grossa pietra. I soldati italiani frenano e subito un’auto si pone di traverso, seguita da un’altra, sbarrando il passo. Lo stesso avviene nella parte posteriore della strada. Poche persone cominciano a circondare i mezzi. Ma in un attimo la stradina si riempie di gente, donne e bambini compresi. Tra cui uno, la cui figura resterà indelebile: aveva la camicia di boy scout e sul taschino l’immagine di Khomeini, il leader rivoluzione sciita iraniana che mise fine al regno dello scià nel 1979».
«Con decisione, i soldati vengono fatti scendere, mentre l’ufficiale, primo a scendere, continuava la propria opera di mediazione. Un ufficiale con grande esperienza di missioni di peacekeeping nei Balcani insanguinati. I fotografi bolognesi Mario Rebeschini e Rossella Santosuosso, con la collega Elisa Murgese, di Radio Popolare, vengono fatti scendere e ripuliti subito dell’attrezzatura fotografica. Io, no. Resto al mio posto. Non sono stato notato o considerato. Alcuni uomini entrano nel mezzo e cominciano a perquisirlo, smontandolo, prendendo la radio, tirando fuori a forza una ragazza, un giovane caporalmaggiore, che cercava di difendere la radio. Le armi vengono ignorate così come lo sono stati i soldi. Non i veicoli che vengono quasi smontati con cacciaviti, pinze e martelli. Si cercano oggetti elettronici per attività di spionaggio. Ma non ce ne sono. La tensione cresce e una trentina di persone si sono radunate. Noto che una donna velata viene portata a perquisire le donne, in perfetto rispetto dei principi dell’Islam. Anche i soldati vengono perquisiti e depredati dei cellulari. La zona è comunque sorvegliata da alcuni “supervisori” che coordinano l’operazione da terra e da alcune finestre di case vicine».
«Poco dopo, sembra che gli stessi miliziani abbiano chiamato l’esercito libanese (Laf, Lebanese armed forces). Il colonnello italiano ha sempre continuato a trattare. Dopo un tentativo di reazione, anche i soldati sono riusciti a mantenere la calma e con loro i giornalisti, evitando il peggio. Arriva la pattuglia libanese. Breve conciliabolo di un ufficiale libanese con uno dei sequestratori. Poi arriva il colonnello italiano. La tensione sembra calare del tutto quando spunta un osservatore canadese di una missione dell’Onu. E qui, se la situazione non fosse stata drammatica, il gesto sarebbe stato beffardo: i libanesi si presentano a soldati giornalisti con del caffè».
«I due mezzi, con le undici persone incolumi, invertono la marcia e tornano a Shama. L’adrenalina dei sequestrati comincia a scendere. Scattano le misure di sicurezza e i contatti ad alti livelli del comandante del settore Ovest, il generale di brigata Antonio Bettelli. Telefoni alzati, intelligence al lavoro e specialisti mobilitati per capire che cosa sia accaduto e che significato possa avere il primo agguato alle truppe italiane sotto bandiera Onu, le più amate dalla popolazione palestinese. Giovani soldati che avevano accompagnato alcuni giornalisti a vedere la famosa tolleranza religiosa presente nel Paese dei cedri, dove è usuale ammirare una chiesa vicina a una moschea e dove non ci sono mai stati episodi di aggressione legati al credo religioso».