Martedì 20 e mercoledì 21 novembre al Teatro Municipale alle ore 21 il Teatro Metastasio Stabile della Toscana presenta “LA CANTATRICE CALVA” di Eugene Ionesco – traduzione Gian Renzo Morteo, per la regia Massimo Castri -in collaborazione con Marco Plini. Con Mauro Malinverno, Valentina Banci, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Sara Zanobbio, Francesco Borchi.
La cantatrice calva inaugurò la produzione teatrale di Ionesco e rimase un testo fondante non solo della produzione del prolifico autore ma anche di tutta la corrente che rientra sotto il nome di “Teatro dell’assurdo”. C’è in questo testo un nucleo più denso, difficile da afferrare, che va al di là degli effetti giocosi e parodici dell’accumulo del non-sense, una forma umoristica che ormai ha perso per noi la forza di una novità linguistica. La genesi di questa anticommedia è famosa; a partire dalle frasi di un manuale di inglese che doveva ripetere e studiare per imparare la lingua, Ionesco iniziò a riflettere sulla non significanza del linguaggio, sulla frequenza delle ovvietà e dei luoghi comuni che sostanziano le conversazioni quotidiane, e decise di farne il tema di questo testo. Questa spinta parodica e la rivolta contro la convenzionalità si riflette nella struttura del testo che ripropone molti dei cliché delle forme teatrali ancora dominanti nel teatro francese del dopoguerra, mescolando vaudeville e pièce bien faite. La cantatrice calva è un testo “primo”, che anticipa i temi che Ionesco svilupperà in seguito eppure li espone con una forza che non troveremo nelle opere successive: l’assurdità del linguaggio vi è espressa nella sua brutalità, è pura, non si appoggia alla mediazione di nessuna metafora. La forma, assurda, vuota, privata di logica è il senso.
Viviamo in una società in cui la piccola borghesia non esiste più come classe sociale definita e individuata; come residuo di questa dissoluzione tuttavia permane e si è diffuso nei diversi livelli della scala sociale, verso l’alto e verso il basso, un retaggio comportamentale che affonda le sue radici nelle forme, nei modi e nei riti di una middle class ormai transnazionale. La piccola borghesia è divenuta ormai un archetipo, ed è questa trasformazione, o forse questa mutazione che fonda l’interesse per il testo, e che infonde nuovo senso alla volontà di Ionesco di mettere in scena e raccontare i “piccoli borghesi universali”.
La crisi dell’ideologia borghese nel passaggio tra Ottocento e Novecento, la perdita di una spinta ideologica e comunitaria, trasforma la famiglia intesa come nucleo sociale e comporta un ripiegamento verso l’interno, la perdita dei legami, la prevalenza dell’utile ricercato per se stesso. La famiglia borghese, nella sua dimensione di archetipo, cessa di essere il nucleo organico fondante di una società, intesa come comunità di uomini guidati da un ideale, mossi da una tensione al progresso, alla ricerca di un benessere che è insieme economico e produttivo ma anche etico, perché condiviso, destinato cioè a creare un’umanità migliore. Di conseguenza, il salotto, luogo simbolo della borghesia, teatro degli scambi e delle relazioni tra interno ed esterno, tra privato e pubblico, diventa un guscio vuoto, una fragile corazza protettiva, in cui si vive asserragliati e chiusi rispetto ad un fuori divenuto ormai indifferente. La relazione, all’interno della famiglia come nella dimensione sociale, viene privata di un obiettivo, di un senso comune e viene mediata dalle forme cristallizzate delle convenzioni, autosufficienti perché sempre uguali a se stesse, bloccate nella ripetizione. Non c’è sviluppo, non c’è progresso, non c’è vera azione, solo il perpetrarsi eterno di una forma come unica possibilità di sopravvivenza. La ripetizione meccanica, preserva dal definitivo disfacimento eppure, per quanto cerchi di negarlo nella ciclicità, subisce il tempo. Ionesco racconta una seconda crisi che riguarda proprio questo meccanismo sterile, ormai consumato dall’usura, dal continuo girare a vuoto. È infatti nel collasso del linguaggio che si rispecchia questa crisi della relazione, questa progressiva perdita di senso. Nel salotto dei signori Smith hanno posto solo parole svuotate, che hanno perso contenuto e non rispondono più alla logica: logorate lentamente nella ripetizione si trasformano in puro suono.
In questo mondo, che ha rinunciato alla dialettica, alla lotta per il senso, le tensioni, non più affrontate, non più assorbite, riempiono i vuoti del linguaggio, riemergono nelle pause del discorso, nel silenzio che scandisce i ritmi di questa continua vana chiacchiera ma riemergono in una forma primitiva, minacciosa, fino ad esplodere. Le continue baruffe degli Smith, l’incapacità di riconoscersi dei Martin, oltre i vuoti cliché di un cordiale e mondano conversare da salotto, rivelano rapporti consumati dall’abitudine e suggeriscono una tensione che cova permanente sotto la cenere. Piccoli screzi, attriti e incrinature coagulano in un finale in cui la violenza sottesa alle parole e alla loro perdita di senso diventa minaccia per l’intera società.
Il salotto degli Smith implode, deflagra dall’interno. Il mondo di questa coppia è un mondo chiuso, che protegge con la sua familiarità e la sua monotonia; forse marito e moglie non escono di casa da anni per non correre il pericolo, come invece accade ai Martin, di perdere definitivamente l’orientamento, non solo quello spaziale, ma anche quello affettivo, che porta questi ultimi a dimenticarsi l’uno dell’altra, a scordare qual è il legame che li tiene assieme.
Nonostante l’apparente normalità c’è il sospetto che lo scenario dell’esterno sia non meno desolato di quello descritto da Beckett in Finale di partita.