Voce stridula, gracchiante, con la chitarra sotto il collo come un giullare, eppure nessuno come Enzo Jannacci ha mai raccontato l’Italia – in particolare la sua Milano – in modo più serio e spietato in ogni piega del tessuto sociale. Si intitola “Il genio del contropiede” il volume dedicato al cantautore milanese classe ’35 che ne ricostruisce il percorso artistico lungo oltre mezzo secolo, scritto da Nando Mainardi e che verrà presentato in serata, dalle 20.45, al Cantiere Simone Weil a Piacenza.
Ci sono quelli che ti fanno ridere e quelli che ti commuovono. Ci sono poi quelli che sanno sia farti ridere sia commuoverti. Ma nessuno è come Jannacci. “Enzo, che di suo ride poco, sa farti ridere e piangere nello stesso momento, e tu non capisci se stia cantando una disgrazia o una facezia” scrive Mainardi per aprirci le porte su un mondo ricco di colpi di genio, di alti e bassi, di apparizioni folgoranti e fughe oltre la realtà quotidiana.
Non è una santificazione, “non è possibile farla di personaggi controcorrente, artisti che possono andare bene per tutti” ha spiegato l’autore. Si colloca invece a metà strada tra la biografia e il saggio, con l’unico scopo di ragionare sulla poetica di una sterminata produzione artistica.
“Enzo Jannacci, il genio del contropiede”, dalla definizione dell’amico di sempre Dario Fo, si suddivide in due parti. La prima è una vera e propria ricostruzione del percorso musicale dell’artista. Gli inizi, le scelte controcorrente, il successo e le numerose collaborazioni. La seconda composta da quattro interviste rilasciate dal cantautore durante la sua carriera, più l’ampia discografia.
Un artista mai troppo celebrato ma che più di qualunque altro ha saputo stravolgere i canoni della canzonetta, rimanendo volutamente e incondizionatamente dalla parte degli ultimi, dei disgraziati, di quelli che cinquant’anni fa erano chiamati ‘i napoli’, ovvero i meridionali arrivati al Nord, i barboni, gli operai, i proletari, “e questa è una scelta che lo ha accompagnato dalla prima canzone all’ultima” ha precisato Mainardi.
Più di tante analisi del testo, comunque, sono certe scelte di Jannacci presenti nel libro a farci comprendere come il percorso umano si intrecci inesorabilmente con le sue composizioni. Per esempio agli esordi, il periodo più duro per un musicista e durante il quale è più facile scendere a compromessi. Era il 1961 e, come qualunque cantante in quel periodo, per farsi conoscere decise di fare un provino per la televisione, per la Rai. A suo modo, naturalmente. Si presentò accompagnato dal solo triangolo come strumento musicale e cantò “Il cane con i capelli”: una tragedia surreale nella quale narrava la triste storia di un cane che, essendo nato con una folta capigliatura, era discriminato sia dagli uomini che dai suoi simili. “Non idoneo a cantare” decretarono i dirigenti del servizio pubblico e successo solo rimandato.
Anche quando la notorietà finalmente lo travolse, però, Jannacci non dimostrò di adattarsi al ruolo di star della canzone. E’ il 1968 e “Vengo anch’io, no tu no!” arriva in testa alla hit-parade. Tanto che la stessa Rai che lo aveva scartato decise di richiamarlo per fargliela interpretare a Canzonissima. “Un altro avrebbe venduto propria madre per vincere – dice Mainardi- ma Jannacci non ci sta ad essere considerato un cantante comico di successo”. Lui vuole cantare “Ho visto un re”, comica e profondamente irriverente, certo, ma di critica al potere. Così l’opposizione dei dirigenti di viale Mazzini porta a un compromesso. Canterà, polemicamente, “Gli zingari”, un pezzo poetico e visionario ma non adatto al grande pubblico.
Non è adatto Enzo Jannacci. Lunatico e costantemente fuori posto e perciò innovativo. Sarà per questo che alla presentazione del libro, oltre ai musicisti Davide Zilli e Gianni Satta che hanno eseguito alcune canzoni di Jannacci, sarà presente Maria Jatosti.
E’ toccato a lei, poetessa nonché compagna di Luciano Bianciardi, il compito di scrivere la prefazione e ricordare chi era ed è rimasto Enzo Jannacci: “Poeta surreale – antesignano del genere cosiddetto demenziale – cantore di una periferia grigia e desolata del mondo e della società, interprete empatico di un’umanità scomoda, irregolare, stracciona e disperata…Questo giullare che ride raramente dietro una maschera stralunata, seria, quasi tragica, che si affaccia dallo schermo-chitarra, stretta al collo, a difesa. Pallido, magrissimo, – “pesavo cinquantaquattro chili” – occhialuto, impacciato, timido, inquieto, che usa le canzoni come arma, come sberleffo per ridere di sé e del mondo”.
Maria ha vissuto in diretta la Milano degli scrittori, degli artisti e dei cabarettisti. Ha conosciuto e frequentato Jannacci quando era a inizio carriera. Secondo Enrico Vaime “il cabaret milanese è nato proprio a casa sua e del suo compagno di allora Luciano Bianciardi”. Lo stesso autore de “La Vita agra” ebbe modo di descrivere con queste parole il cantautore nel ’64, a uno dei suoi primi spettacoli dal vivo: “Nel palchetto, siccome ero il festeggiato, mi misero in prima fila, così vidi bene la faccia spigolosa di questo ragazzo, isolata dalla chitarra che sembrava un collarone di Pierrot”.
Insomma, leggere “Enzo Jannacci, il genio del contropiede” di Nando Mainardi vuol dire conoscere un mondo ormai scomparso, dei Giorgio Gaber, Dario Fo, Beppe Viola, Cochi e Renato. Un pezzo di storia del Paese attraverso la vita di un uomo, partito dal nulla, che ha saputo innovare profondamente il modo di fare canzone, di far ridere e – perché no – anche di prendere la vita.