Milani, sessantottino con due “quasi” lauree: “Lotto per una società più equa”

Ogni venti parole proferite, ci infila in mezzo anche quella che sintetizza tutta una vita: “lotta”. Da oltre un anno, prima con la vertenza Tnt, ora con quella Ikea, Aldo Milani è il leader indiscusso dei facchini che protestano duramente contro quelle che, a loro dire, sono condizioni di lavoro che “tolgono la dignità” ai lavoratori. In qualità di coordinatore nazionale del Si Cobas egli partecipa ai tavoli, ordina picchetti e tiene assemblee sindacali anche all’alba e se necessario sui marciapiedi di fronte agli stabilimenti. Di lui gli operai, che per la maggior parte sono stranieri, si fidano ciecamente. Lo ascoltano, gli fanno largo quando passa, lo seguono come se fosse un ras. E lui tira dritto in questa dura battaglia, sempre con indosso il suo giubbotto di pelle. Chi mai direbbe che quest’uomo, che da mesi passa molte mattine ai cancelli dell’Ikea, ha due “quasi lauree”, in ingegneria e in architettura (gli mancheranno per sempre due esami), e appena il tempo libero glielo permette si diletta con pittura e scultura.

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Chi è dunque veramente Aldo Milani da Malonno, paesino del Bresciano? Da dove arriva e in cosa crede l’uomo considerato un “osso duro” perfino dalla polizia? E perché crede tanto in questa causa che sta facendo il giro dell’Italia? Nato 65 anni fa e cresciuto in una famiglia operaia, come tutti i padri anche quello di Milani voleva che trovasse un lavoro tranquillo e che mettesse su famiglia. “Mio padre non mi ha salutato per un anno quando ha saputo che avevo iniziato a fare scelte politiche”. Da sempre schierato a sinistra e in difesa “degli oppressi”, Milani dice di non riconoscersi oggi in nessuna forza politica, nemmeno in quella “Rifondazione comunista” che sta appoggiando l’ala frondista dei facchini. “Mi riconoscevo negli ideali del Partito Comunista d’Italia fino al 1926 – dice – poi Stalin ha distrutto la prospettiva comunista. Più che altro mi riconosco in qualche cosa che sarà opera dei lavoratori in senso rivoluzionario e che oggi non esiste. Ecco, sono un comunista internazionalista”.

Arriva a Milano nel ‘68, al Politecnico dove studia diventa un leader sessantottino, prima di iniziare la carriera di insegnante alle scuole professionali della Regione Lombardia. E’ qui che inizia l’attività sindacale, per la quale chiede una serie di distaccamenti. Si avvicina dapprima alla Fim Cisl (metalmeccanici) dalla quale però prende le distanze ben presto per rientrare nel mondo della scuola. “Non accettavo certi compromessi, certi segretari che mi telefonavano perché accettassimo delle mediazioni con i padroni”. Nel ‘93 arriva la cosiddetta stagione dei Bulloni e inizia la sua esperienza nel sindacalismo di base. Fonda con altri compagni lavoratori  lo Slai Cobas che è maggioritario nelle fabbriche Fiat di Napoli e dell’Alfa Romeo a Milano dove rimane fino a due anni fa quando insieme a dei colleghi si stacca e dà vita al Sì Cobas (sindacato intercategoriale), quello che oggi si batte fuori dai cancelli Ikea e che si è fatto “le ossa per i lavoratori dell’Atm di Milano”. “Concepiamo un sindacato in cui ci si riconosce tutti in quanto lavoratori ed espressione di essi e che lotta in senso anticapitalistico. Non mutuiamo la classica burocrazia sindacale di Cgil, Cisl e Uil. Nessuno di noi è un professionista sindacale, è tutto volontariato. Qualcuno dice che sfruttiamo i lavoratori. Beh, io sono leader nazionale, potrei starmene a casa a dipingere, invece spesso all’alba sono a Piacenza davanti a Ikea. Dietro tutto ciò c’è passione e sacrificio. Credo nella lotta che stiamo facendo. Non è utopia. Bisogna pensare alla società che verrà dopo la fine del capitalismo. Ci battiamo per una società migliore, più equa , che garantisca la dignità del lavoratore” e crei le condizioni per cui i lavoratori come classe possano rivoluzionare questo stato di cose: proletari che lottano per sé e non in sé.

Mercoledì scorso al termine del corteo nelle vie del centro è salito sul muretto del Pubblico Passeggio radunando attorno a sé i facchini e invitandoli alla lotta. Quella che lui fa da una vita, tra i metalmeccanici e nella logistica: “Non mi sento un leader, cerchiamo solo di fare un sindacato dove i protagonisti siano i lavoratori stessi. Fa parte della cultura dei paesi di origine di molti lavoratori quella di avere bisogno di una guida, di una sorta di ras, ma non mi sento per nulla santificato. Mi fa sorridere quando qualcuno pensa che li sfruttiamo in termini ideologici. Noi stiamo lottando per rivendicare l’applicazione del contratto nazionale, quello che hanno firmato Cgil, Cisl e Uil, ma che non fanno rispettare perché sono a libro paga dei padroni. Non si possono poi stupire se i lavoratori si iscrivono al Sì Cobas”.

Sul settore della logistica ha le idee chiare: “In molto trascurano questo settore, ma è quello dove c’è maggiore evasione fiscale, dove sono maggiori le infiltrazioni mafiose, dove si ricicla il denaro sporco. E’ un settore che rende di più dello spaccio. Basta guardare da dove provengono i capi delle cooperative che gravitano in questo mondo. E tutto ciò perché? Perché la logistica rappresenta una parte importante e strategica dal punto di vista capitalistico. E’ un settore fondamentale della nostra economia. Può esserci la crisi, ma la merce va venduta anche quando c’è crisi, e ci vuole qualcuno che la porti sul mercato”. Siccome il capitalismo italiano ha un sistema infrastrutturale arretrato che si basa su mezzi di trasporto su gomma,  esso può essere concorrenziale solo se la forza lavoro è pagata a meno prezzo, ed è da questa necessità che si sviluppa il lavoro semi schiavistico delle cooperative.

A chiedergli cosa pensa dei lavoratori che vogliono entrare negli stabilimenti Ikea e che non approvano il loro metodo di lotta, lui risponde: “Io non li considero dei nemici, anzi. Ma vivono sotto ricatto materiale dei padroni. Ora le cooperative parlano di cassa integrazione, tutto fatto ad arte per mettere i lavoratori che oggi sono all’interno con quelli che lottano all’esterno e per creare una “riserva” qualora il giudice decida di fare rientrare i lavoratori sospesi o licenziati come avviene alla Fiat nell’era di Marchionne. Dicono che i lavoratori vengono messi in cassa perché da quando protestiamo mancano i volumi. E’ falso. Mancano i volumi perché il sistema è in crisi”.

In molti si chiedono ora quanto tempo durerà questa situazione e Milani non pare rassicurare troppo sui tempi di risoluzione della vertenza. “Questa situazione andrà avanti ancora parecchio tempo. Dal ministero degli Interni sembrerebbe sia arrivato l’ordine di militarizzare i cancelli per sgomberare i picchetti. Ikea sta andando su tutti i media non certo facendo grandi figure e poiché gli interessi economici e gli appetiti e gli equilibri politici ed istituzionali sono tanti, faranno di tutto per portarci al silenzio. Purtroppo per loro, però siamo e saremo sempre di più. Anche fuori Piacenza, nei negozi Ikea sparsi in giro, si stanno accorgendo di cosa c’è dietro Ikea. Devono capire che non è un problema di ordine pubblico, ma di rispetto dei lavoratori. E andremo fino in fondo”.