Secondo una bella tradizione del nostro teatro, i festeggiamenti per San Silvestro si cominciano in musica. Quest’anno la 15Orchestra Sinfonica di Piacenza sarà diretta da Marco Beretta per accompagnare insieme al Coro del Teatro Municipale di Piacenza, diretto da Corrado Casati, il tenore Antonio Corianò in una raffinata selezione che alterna brani lirici a pagine orchestrali da Verdi a Ponchielli, da Borodin a Brahms.
Il concerto, in programma sabato 31 dicembre alle ore 17, dopo l’apertura affidata alla “Danza delle ore” da La Gioconda di Amilcare Ponchielli proseguirà con le Danze polovesiane da Il principe Igor di Aleksandr Borodin e le Danze Ungheresi numero 1 e numero 5 di Johannes Brahms.
La seconda parte del concerto sarà invece dedicata alla musica verdiana con l’esecuzione di Arie e Ballabili tratte da famose e amate opere del “Cigno di Busseto” quali Macbeth, Otello e Aida. All’Inno delle nazioni sarà invece affidato il compito di salutare il pubblico e l’anno in corso e di augurare un meraviglioso 2017 a tutti i presenti in teatro.
“La danza delle ore” è il ballabile de La Gioconda di Amilcare Ponchielli. Dopo un’introduzione in sol maggiore, con interventi vocali, si assiste in sequenza alle danze delle ore dell’aurora, delle ore del giorno, delle ore della sera e delle ore della notte.
L’episodio dedicato alle ore dell’aurora funge da estesa introduzione a quello dedicato alle ore del giorno, di cui anticipa l’inciso tematico di quattro note. Il punto di raccordo tra i due episodi, l’istante della nascita del giorno, coincide con l’intervento in fortissimo del coro («Prodigio! incanto!») cui segue un lento passaggio cromatico tipico dello stile dell’autore.
Dopo il breve episodio in do diesis minore dedicato alle ore della sera, basato su figurazioni in staccato, una melodia legata ed espressiva in mi minore affidata alla voce brunita dei violoncelli introduce le ore della notte. Una nuova patetica melodia in la minore si distende infine in un’ampia frase cantabile nella tonalità iniziale di mi maggiore.
Un effetto di dissolvenza sonora prepara l’attacco della coda conclusiva: un robusto can-can alla maniera del Ballo Excelsior, introdotto a sorpresa da un brusco cambio di tempo (allegro vivacissimo).
“Le Danze Polovesiane” formano una scena esotica nella lunga opera di Aleksandr Borodin Il principe Igor, opera rimasta incompiuta quando il compositore morì nel 1887, anche se aveva lavorato su di essa per più di un decennio. La prima danza – preceduta da una breve introduzione – è un “Andantino” pieno di grazia melodica; segue una vigorosa e ritmata danza degli uomini “Allegro Vivo” che sfocia in un rapido “Allegro” in 3/4 dai temi pulsanti e trascinanti. La quarta danza è un “Presto” in 6/8 vorticoso e fuggente dalla strumentazione ora leggera ed ora piena di ebbrezza. La festa nell’accampamento è qui al suo culmine, ma ancora si torna ai temi delle danze precedenti prima di giungere alla conclusione festosa e giubilante.
Le ventuno “Danze ungheresi” per pianoforte a quattro mani furono composte in periodi diversi da Brahms, che ne eseguì, per la prima volta, una parte a Budapest nel 1867 in una versione a due mani che anche Clara Wieck Schumann inserì, in più occasioni, nei suoi concerti. Quanto alle trascrizioni orchestrali, Brahms curò direttamente quelle dei nn. 1, 3 e 10, mentre delle altre si occuparono diversi compositori tra i quali Antonìn Dvořàk, legato al musicista di Amburgo da viva amicizia. Come altri musicisti dell’Ottocento romantico, Brahms nutrì sempre interesse per la musica popolare ungherese (o, per meglio dire, zigana). Aveva conosciuto molte di queste danze in gioventù, nelle birrerie viennesi e nei viaggi compiuti in Ungheria per accompagnare il violinista Ede Reményi e ne aveva annotate diverse, ma si servì, per le sue composizioni, anche di altre fonti. L’esecuzione a Budapest di alcune danze nella versione a due mani (1867) non incontrò buona accoglienza, con grande sorpresa dell’autore: i critici magiari sostennero che il pianoforte non era uno strumento idoneo per la loro musica nazionale. Al contrario, le successive pubblicazioni della versione originale a quattro mani, grazie all’editore tedesco F.A. Simrock, amico del musicista, ottennero un successo immediato e immenso, forse anche per la loro semplicità tecnica.
Come per le Rapsodie di Liszt, le danze di Brahms dovrebbero intitolarsi “zigane” piuttosto che “ungheresi”. Fino al Novecento, infatti, l’autentica musica magiara, di estrazione contadina, rimase sepolta nelle campagne e completamente sconosciuta nei centri culturali urbani: saranno due musicisti come Béla Bartòk e Zoltàn Kodàly a esplorarne, all’inizio del Novecento, l’immenso patrimonio e a diffonderne la conoscenza. Ancora all’epoca di Brahms, invece, la musica popolare ungherese era identificata con quella zingaresca (o zigana) ma questo nulla toglie all’importanza delle sue composizioni. Non si deve dimenticare, infatti, che per molte delle melodie e dei ritmi delle Danze ungheresi la tradizione precedente era puramente orale, trasmessa di padre in figlio tra i musicisti delle orchestre zigane. È merito di Brahms aver fissato nella scrittura questi motivi attraverso un lavoro certamente impegnativo e non privo di rischi. Dal punto di vista tecnico, infatti, la difficoltà maggiore consisteva nell’adattare le melodie eseguite dalle orchestre zigane con assoluta libertà e fantasia alla grafia musicale della tradizione occidentale colta. Il pericolo era di contaminarne la vena più autentica tarpandone l’intensa vitalità, fatta di varietà e leggerezza ritmiche. Brahms seppe evitare il pericolo grazie anche all’aiuto del suo grande amico e collaboratore Joseph Joachim, violinista, compositore e ottimo conoscitore di quella musica. Fu ugualmente evitato il rischio di una ricostruzione puramente storica e archeologica, destinata forse a deliziare gli etnomusicologi ma non certo il pubblico. Si deve comunque aggiungere che Brahms non si è limitato a trascrivere le danze a disposizione, ma le ha talvolta parafrasate e arricchite con frammenti originali, quando poi non ne ha composte di propria mano. In ogni caso, egli ha costantemente utilizzato intervalli, modi, ritmi e formule tipici della musica zigana.
Non se ne parla mai come si dovrebbe, ma la musica di Giuseppe Verdi ha fornito un contributo essenziale al balletto: sono cinque in particolare le opere del compositore emiliano che hanno influito sull’ evoluzione delle coreografie, ovvero Jérusalem, Macbeth, I Vespri Siciliani, Aida e Otello. È proprio in questi melodrammi, infatti, che si possono apprezzare dei ballabili di pregevole fattura, ancora oggi molto graditi dai ballerini di tutto il mondo.
Questa “passione” di Verdi per il balletto si può far risalire alla prima esperienza del bussetano con l’Opéra, il tempio dell’opera lirica di Parigi: nel 1847, nel periodo in cui sta preparando I Masnadieri per Londra, giunge anche la proposta francese per la prima rappresentazione in territorio transalpino.
Verdi è allettato e non rifiuta certamente, ma sa bene quale “giungla intricata” sia l’Opéra e non azzarda nessuna opera nuova, puntando sul rifacimento in lingua francese dei Lombardi alla Prima Crociata (1843). Si tratta appunto di Jérusalem, un lavoro che deve rispettare le rigide regole del teatro in questione; tra le altre, figurano i ballabili, pezzi che sono praticamente obbligati e con cui Verdi si cimenta in maniera importante. Il debutto parigino non riserva grandi soddisfazioni, la serata del 26 novembre del 1847 è un debutto che può definirsi senza infamia e senza lode, ma un solco nella storia del balletto è stato tracciato. Nell’atto III si trovano una serie di danze molto esotiche, utili per descrivere i giardini dell’harem, con un gusto molto raffinato per le soluzioni a effetto, anche se in questo caso piuttosto discontinue.
Le stesse occasioni si ebbero con altre trasposizioni in francese dei suoi capolavori, ovvero Le Trouvére-Il Trovatore e Violetta-La Traviata. La scelta dello spartito ricade sempre sul terzo atto e non è certo un caso: in effetti, a quel punto dello spettacolo i membri del Jockey Club locale si rifugiavano all’Opéra per ammirare e applaudire le loro ballerine predilette. Anche nei Vespri Siciliani c’è una presenza importante, ovvero quella delle cosiddette quattro stagioni, mentre per Aida e Otello il discorso è diverso.
Nel caso dell’Otello, infatti, i ballabili sono considerati tra i più belli in assoluto, anche se spesso vengono trascurati e invece meriterebbero una maggiore attenzione. Una citazione d’obbligo la meritano la canzone araba, con la sua invocazione ad Allah, la canzone greca e l’allegro vivace. Per quel che concerne l’Aida, poi, si trovano delle danze sparse qua e là, schiavi egizi, ancelle e mori che allietano gli spettatori: forse la pecca potrebbe essere che queste melodie non formano un balletto autonomo, ma la valenza rimane sempre la stessa.
Un balletto, invece, su cui vale la pena soffermarsi è quello del Macbeth: nella versione originale dell’opera, quella rappresentata a Firenze nel 1847 non c’era alcun tipo di ballabile, ma lo spartito rimaneggiato venne messo a disposizione ancora una volta dell’Opéra ben diciotto anni dopo e in questo caso è presente, come voleva la tradizione, una danza splendida. Si tratta di una decina di minuti da sogno, in cui Verdi riesce a fondere molti sentimenti e atmosfere, con gli ottoni che esemplificano in modo perfetto la perentorietà e la drammaticità del popolo scozzese oppresso, come anche il suo anelito e il suo sogno di libertà.
Il “Cigno di Busseto” è dunque riuscito a dimostrare tutto il proprio estro e una versatilità non comuni: la fantasia che ha contraddistinto le creazioni dei suoi capolavori si è messa in luce perfettamente nella danza, probabilmente l’unico rammarico è che non abbia lasciato dei balletti completi, ma bisogna ricordare che il suo intento era quello di amalgamare il genere all’interno del contesto operistico.
L‘Inno delle nazioni è una cantata profana composta da Giuseppe Verdi su testo di Arrigo Boito per l’Esposizione universale del 1862, presentata in anteprima il 24 maggio 1862 presso la Royal Opera House di Londra. Per l’Esposizione Universale del 1862 a Londra, furono incaricati di comporre musica di festa per l’occasione i compositori di quattro paesi: Germania (Giacomo Meyerbeer), Francia (Daniel-François-Esprit Auber), Gran Bretagna e Irlanda (William Sterndale Bennett) e Italia, recentemente unificata. Prima di dare l’incarico a Giuseppe Verdi, che aveva appena terminato la composizione della sua opera La forza del destino, si cercò la disponibilità di Gioachino Rossini, che rifiutò l’offerta.
Nel 1861 l’Italia era stata unificata per la maggior parte del suo territorio, le regioni ancora non annesse erano il Lazio, l’ultimo residuo dello Stato Pontificio ed il Triveneto. In questo clima di eccitazione, Verdi incontrò il poeta e compositore Arrigo Boito, allora ventenne, che scrisse un testo sulla pace e l’amicizia tra i popoli. In contrasto con il testo di Boito, la composizione non finisce con un inno all’arte come era preventivato, ma sulle note di God Save the Queen, della Marsigliese e del Canto degli Italiani. La cantata venne conclusa a Parigi tra il 24 febbraio ed il 31 marzo 1862, e non fu eseguita al concerto di apertura con i lavori di Meyerbeer, Auber e Bennett, ma in un concerto complementare alla Royal Opera House. In questa rappresentazione la parte solistica, che Verdi aveva scritto originariamente per il tenore Enrico Tamberlick, fu eseguita dal soprano Therese Tietjens. La mancata esecuzione della cantata al concerto di apertura è dovuta, probabilmente, al fatto che Verdi sostituì nella parte orchestrale l’inno per l’imperatore Napoleone III con la Marsigliese, simbolo della Repubblica, ma soprattutto per il fatto che il lavoro risultò essere una marcia e non una cantata come inizialmente richiesto dalla committenza.
Per info e biglietti è possibile rivolgersi alla biglietteria del Teatro Municipale di Piacenza, in via Verdi 41, al numero di telefono 0523.492251 o al fax 0523.320365 o all’indirizzo mail direzioneartistica@teatripiacenza.it.