Riceviamo e pubblichiamo un intervento di Giampaolo Maloberti, presidente del Consorzio Carne che Piace.
In qualità di presidente del consorzio la Carne che piace non posso esimermi dall'esprimere alcune considerazioni inerenti il mercato della carne in generale e ai consumi nella nostra provincia in particolare. Che la carne italiana sia sempre più in crisi, che i consumi calino e che i macellai spariscano è vero.
L’Europa che non permette agli allevatori di vendere la loro carne in un mercato libero, ma gravato da mille restrizioni burocratiche, è una zavorra. A breve, se gli italiani non staranno attenti, a dare un ulteriore colpo alle nostre carni di qualità ci sarà anche il maglio del Ttip, il trattato di libero scambio tra Usa ed Europa: dall’America, infatti, se l’accordo passerà, potrebbero arrivare carni a basso costo, ma di cui il consumatore non saprà nulla riguardo all’allevamento, ai mangimi usati per gli animali, ai farmaci utilizzati per curare bovini, suini e avicoli. Senza dimenticare la ghigliottina che cadrà sui prodotti Dop e Igp, che da 1.500 in tutta Europa dovrebbero diventare 200. E la mancanza di etichettatura per indicare le materie prime e i luoghi di produzione sono un freno, anche se qualcosa sembra si stia muovendo. A questo quadro dalle tinte fosche si aggiungano alcune deliranti mode alimentari, che per fortuna riguardano solo una piccola parte della popolazione, è il gioco rischia di diventare letale. Un’attività, l’allevamento, tra le più antiche del mondo, potrebbe diventare un affare di poche multinazionali, con gusti standardizzati dove a farla da padrone saranno solo i prezzi.
A Piacenza, i tentativi di fare squadra sono falliti, come viene sottolineato da alcuni macellai. Il Consorzio La Carne che Piace, di cui sono presidente, all’inizio aveva cercato di coinvolgere tutte le realtà locali. Alcune persone erano anche venute alle nostre riunioni, ma poi si sono eclissate. Il tentativo di riunire sotto un unico marchio il meglio della carne piacentina è rimasto così in capo a una trentina di soci che hanno creato un filiera corta, si sono dati un disciplinare e hanno cercato anche di portare al di fuori dei nostri confini le eccellenze di cui è piena la nostra provincia, cercando anche di abbinare il territorio e la sua cultura ai prodotti. Perché è questa oggi la strada per farsi conoscere sui mercati, oltre a offrire qualità, salubrità e sicurezza.
Quanti sono i piacentini che conoscono le nostre carni? E quelli che sanno che molti allevamenti hanno i capi all’aperto, tra le colline? E chi conosce il disciplinare che prevede uso di semi di lino, riduzione di farmaci negli ultimi mesi, frollatura di almeno tre settimane? Purtroppo, in questa provincia si continua a guardare al particolare. Di recente, il Friuli Venezia Giulia ha ottenuto la Doc unica per i vini, facendo massa, cioè squadra, i vini friulani saranno venduti nel mondo con un solo nome: “Friuli”. Una cosa del genere, da noi è impossibile, almeno per ora. In ogni settore dell’agroalimentare: carne, latte, vino, salumeria, formaggi.
Il mondo corre, ma noi non vogliamo rinunciare alle nostre tradizioni che hanno prodotto eccellenze, purtroppo, ancora semi sconosciute. Se è vero che le industrie devono fare i conti con il mercato globale, è anche vero che quella qualità di cui spesso si fanno vanto ha dei costi. Chi produce deve sostenere spese sempre più ingenti e al momento di vendere si trova di fronte a prezzi stracciati per ciò che ha realizzato con passione, sapienza e amore per dare cibo sicuro e sano. E la permanente distanza tra produttori e trasformatori resta tale, senza che nessuno faccia un passo avanti.
Giampaolo Maloberti
(presidente del Consorzio La Carne che Piace)