Giorno della Memoria, scampò alla furia nazista: “Non deve più accadere”

“Nonostante due guerre mondiali, ancora oggi nel mondo ci sono tante tensioni, tanti fatti di violenza. Ognuno deve fare la propria parte, con ancora più impegno. Papa Francesco ha ragione quando dice che siamo di fronte a una guerra mondiale che si combatte a puntate. Non dobbiamo pensare di essere immuni dalla violenza. Ci sono tante forze che vogliono prevalere uccidendo. Serve un grande impegno da parte di tutti”.

Radio Sound

Con queste parole don Giuseppe Basini, parroco di Sant’Antonino, ha ricordato le ragioni attualissime che devono spingere tutti “a continuare a ricordare la catastrofe della Shoah.

Si è infatti tenuta oggi presso il Giardino della Memoria al civico 6 di Stradone Farnese a Piacenza, la cerimonia istituzionale a ricordo delle vittime della Shoah. Agli interventi del sindaco Paolo Dosi e del presidente della Provincia Francesco Rolleri è seguita la deposizione delle corone d’alloro.

Subito dopo presso la Galleria d’Arte moderna Ricci Oddi c’è stata la consegna, da parte del prefetto Anna Palombi, delle medaglie d’onore concesse ai cittadini italiani, militari e civili, deportati e internati nei lager nazisti, destinati al lavoro coatto per l’economia di guerra nell’ultimo conflitto mondiale, nonché ai familiari delle persone decedute. Tra questi il 94enne Volpicelli, 94 anni, reduce da un campo di concentramento nella ex Cecoslovacchia. Scampò alle atrocità naziste. “Ricordo ancora tutto – ha detto commuovendosi – sperando che non succeda mai più”.

Due studentesse che hanno preso parte lo scorso anno al Viaggio della Memoria hanno letto alcuni brani tratti dal diario di Aldo Carpi, pittore deportato a Gusen. Gli allievi del Conservatorio Nicolini hanno accompagnato in musica l’evento.

IL DISCORSO DEL SINDACO PAOLO DOSI

Erano circa 7 mila, i detenuti rimasti all’interno del campo di concentramento di Auschwitz, quando il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche abbatterono i cancelli del lager. Gli stenti, la denutrizione, l’impietosa devastazione fisica e psicologica avevano ridotto in fin di vita la maggior parte dei prigionieri che ancora erano rinchiusi oltre il filo spinato, al di là di quella scritta sinistra e tragicamente solenne – “Arbeit Macht Frei” – che il mondo avrebbe imparato con orrore a conoscere nel suo vero, drammatico significato.

All’approssimarsi dell’Armata Rossa, gli ufficiali di Hitler avevano distrutto le camere a gas ancora funzionanti e costretto circa 60 mila prigionieri a evacuare il campo, uccidendo coloro che non riuscivano a mantenere il passo, lasciando che la fame e il freddo facessero il resto. Senza dimenticare le migliaia di vittime trucidate nei giorni precedenti, nel vano tentativo di disperdere le tracce, le prove di uno sterminio pianificato con lucida follia. Come se si potessero cancellare davvero, le storie e la memoria di un milione e trecentomila persone deportate dalle SS e dalla polizia tedesca tra quelle stesse mura, da cui un milione e centomila bambini, donne e uomini non fece mai ritorno.

Come se si potesse realmente stendere un velo di silenzio sull’enormità inenarrabile degli esperimenti genetici, sulle docce della morte in cui venivano stipati come rifiuti coloro che venivano giudicati inadatti ai lavori forzati, a produrre profitto con i loro corpi esili, violati, annichiliti dalla persecuzione e da ferite interiori che mai avrebbero potuto rimarginarsi. Come se si potesse immaginare che nessuno, di fronte a quelle vite cancellate, a quelle famiglie separate nel buio di un vagone e passate al vaglio come merce da riattare, condividesse il loro dolore e se ne facesse carico, nella commozione e nella consapevolezza del ricordo.

Perché è questo che oggi ci chiede la nostra presenza nel Giardino della Memoria; è su ciò che è stato che ci interroga la nostra coscienza, dando voce a chi è stato condannato – senza appello, né speranza di salvarsi – perché di religione ebraica, perché disabile, perché di etnia Rom, perché omosessuale o, semplicemente, perché libero nei pensieri, nelle scelte politiche, nel rifiuto di piegarsi a un’ideologia vile e totalitaria. Scavare nei risvolti più duri di quel passato ci obbliga a fare i conti con il volto brutale di un’umanità che ha rinnegato se stessa, ma al contempo ci permette di prenderne le distanze, di riaffermare che non possiamo, ancora oggi, accettarne l’aberrazione e la vaneggiante filosofia del capro espiatorio, dell’odio xenofobo nei confronti del diverso.

 

 

 

 

Conoscere la storia significa avere gli strumenti per sapere che non si può inneggiare alla guerra o all’intolleranza. Significa rivedere, nei volti delle minoranze Yazide rapite e schiavizzate in Iraq, così come nelle vittime degli attentati perpetrati nel novembre scorso a Parigi, tra una folla che esprimeva soltanto gioia di vivere, lo spettro di quella stessa violenza fine a se stessa. Guardando in faccia, con sgomento e con realismo, quella “banalità del male” che Hannah Arendt ha saputo spiegare così bene, esortandoci a riflettere sul fatto che a compiere quelle azioni mostruose fossero state persone “non demoniache, ma pressoché normali”. Significa, infine, assumersi la responsabilità della cultura che vogliamo trasmettere alle nuove generazioni, ispirata alla pace e alla convivenza civile, ma vigile nell’impedire il dilagare di sentimenti antisemiti, di revisionismi strumentali e offensivi della dignità e dell’intelligenza altrui, di facili propagande belliciste frutto di una visione distorta della religione e della spiritualità.

Appare allora come un monito che non possiamo ignorare, la frase incisa in trenta lingue all’interno del campo di concentramento di Dachau: “Coloro che non conoscono il passato, sono condannati a ripeterlo”. Dare valore alla memoria, del resto, vuol dire proprio questo: avere coscienza – e aiutare gli altri a comprendere – che non può esservi innocenza né leggerezza nel giustificare il fanatismo nazista o l’estremismo di qualsiasi matrice. Perché guardare una persona morire, pianificarne la sofferenza come se fosse null’altro che il tassello di un ingranaggio funzionale a un progetto più grande, è semplicemente contrario a ogni principio, a ogni fondamento della nostra natura. E lo è al di là di qualsiasi credo religioso, di qualsiasi convinzione politica si possa avere.

Oggi, 27 gennaio, siamo qui perché abbiamo un debito morale, un legame alle radici del nostro stesso essere umani, con i 15 milioni di vittime che si stima l’Olocausto abbia prodotto, tra le quali 6 milioni di Ebrei caduti per il disegno genocida di Hitler. Oggi siamo qui perché nessuno possa più incidere, nella pietra, quella scritta su cui Luis Sepulveda racconta di aver posato gli occhi a Bergen-Belsen, forse tracciata con un chiodo, forse con un coltello: “Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia”. No, mai più.