La rabbia del Nure, viaggio tra le case distrutte di Farini dopo l’alluvione

L’interno delle case di solito è visibile solo a chi entra, possibilmente dalla porta d’ingresso e magari su invito. A Farini basta fare un passaggio sul ponte e guardarsi attorno: a monte, superato l’impatto impressionante della prima occhiata, è possibile mettere a fuoco le ciabatte bianche del fabbro del paese abbandonate in sala sul bordo irregolare di un pavimento spezzato come un biscotto morsicato e lasciato lì, con le briciole. A mezzo metro c’è una chaise-longue in pelle nera: ispira comodità e qui, ora, stride come un chiodo sulla lavagna. La facciata che dava sul torrente Nure non esiste più: quel che ne resta è mischiato a tronchi e fango e acqua ai piedi dell’edificio che probabilmente dovrà essere raso al suolo perché inagibile. A valle del ponte l’infilata di case lato fiume è da mettersi le mani nei capelli: la furia della piena si è mangiata la base di ogni edificio che ora sembra reggersi sul niente. Scale interne, stanze, soggiorni, garage si aprono allo sguardo di chiunque. Intimità violate di colpo. Anche quella di don Luciano Tiengo, parroco di Farini: «In cucina e nelle altre stanze l’acqua sarà stata due o tre metri. E poi cumuli di oggetti ovunque. Erano le cose di casa insieme a tronchi e sassi. Ammassi che superavano in altezza le porte, era impossibile uscire. Grazie a Dio io dormo al piano di sopra e con molta fatica alla fine sono riuscito a trovare un varco per uscire in strada». Una salopette da lavoro infangata copre l’abito talare ormai lurido di don Luciano; si salva solo il collarino bianco: intonso. Alcuni parrocchiani stanno aiutando il don a salvare il salvabile di ciò che era in canonica: qualche quadro, qualche messale, qualche piccola statua.

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Tutt'intorno è un gran via vai di trattori, uomini, donne, ragazzi giovanissimi e anziani. Una patina di mota ocra copre tutto, cose e persone, e rende quasi indistinguibili le divise della Protezione civile e della Croce rossa dagli abiti civili dei tanti volontari arrivati da tutta la vallata, dalla città capoluogo e da altrove. Sono riconoscibili solo i pompieri con il casco, alcuni con le maschere per entrare e lavorare nel chiuso delle cantine ancora semiallagate.

Qualche ragazzotto ride e scherza mentre spala ma in paese gli sguardi sono perlopiù cupi e scuri, e non solo per le chiazze di melma: qui c’è chi ha perso tutto. Sguardi cupi ma attivi, decisi, tosti. Si spala con grinta, come a dire al mondo che qui la forza per ripartire c’è. «In qualche modo faremo» dice una delle impiegate del Comune mentre con una ramazza ormai logora sposta masse d’acqua dal pavimento di ciò che resta del Municipio. «Vede? Qui c’era l’anagrafe, dietro a un muro che ora non esiste più». L’impiegata spiega che una spaventosa ondata di piena è entrata dal finestrone panoramico affacciato proprio sul Nure riversando all’interno una massa informe di pietre e detriti che ha abbattuto una parete e devastato ogni cosa.

«L’acqua è arrivata ai balconi dei secondi piani, le case affacciate sul fiume sono state spazzate vie. Qui c’è gente che ora non ha più niente, non ha più un lavoro, un tetto, niente». Tiziana Draghi non piange ma si vede che ha pianto poco fa. E’ un dottore, per dodici anni ha lavorato alla guardia medica di Farini e in questo luogo c’è il suo cuore, la sua vita, la sua casa. «Una piena impressionante con onde alte dieci metri ci ha colti all’improvviso alle tre di notte mentre dormivamo – racconta – Nessuno ci ha avvisati, nessuno ci ha evacuati, non eravamo preparati ad affrontare un evento del genere. La casa del meccanico del paese, la casa del fabbro e di altri non hanno più stanze dal letto, cucine, bagni. Pezzi di un ponte che serviva per attraversare un affluente del Nure sono stati scaraventati contro le facciate dei palazzi. La devastazione è inimmaginabile in tutta via Roma, la via più vicina al fiume. E ora abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti per ripartire».