L’ex repubblichino: “Scelta ribelle. Ora stringerei la mano a un partigiano”

Nel raccontare il 25 aprile, festa di Liberazione dal nazi-fascismo, c'è sempre una storia che rimane elusa, tralasciata o volutamente dimenticata. E' quella di coloro che, dopo la la resa, decisero di seguire Benito Mussolini nella creazione della Repubblica sociale italiana, voluta dalla Germania nazista per governare parte dei territori italiani controllati militarmente, durante la seconda guerra mondiale dopo l'armistizio di Cassibile nel 1943. Tra ragazzi, per lo più giovanissimi, che intrapresero quella fallimentare avventura, c'era anche Rodolfo Graziadei, allora 20enne, ferrarese di origine ma da oltre 50 anni residente a Rottofreno. Forse l'ultimo, nella nostra provincia, a poterci raccontare i drammatici momenti della resa e del dopoguerra che, per i repubblichini, furono particolarmente difficili. "La guerra è un orrore" ha premesso il quasi 90enne (tra pochi mesi), che sembra aver rivisto molte delle posizioni del passato. Anche perché, ha assicurato, "la nostra fu una scelta di ribellione verso la decisione del re di passare con il nemico". E oggi Graziadei ha assicurato: "Un partigiano? Non ho mai provato odio. Allora ci sparavamo, adesso gli stringerei la mano".

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Signor Graziadei, lei oggi si sente di aver combattuto dalla parte sbagliata?

“No, dopo tanti anni sento che, essendo nato nel 1925 non potevo che essere nato fascista. In più, alla fine della guerra, noi studenti avevamo l’orgoglio di essere italiani. E così quando il re Vittorio Emanuele si è alleato con il nemico, non ha condotto una resa regolare che sarebbe stata anche giusta, ha pensato solo a salvare la sua corona ed è passato dall’altra parte senza dare eordini. In questo modo c’erano reparti dell’esercito che non sapevano più chi fosse gli amici e i nemici. Noi, giovanissimi, siamo rimasti schifati da questo comportamento, appunto perché orgogliosi di essere italiani e fare una figura del genere ci bruciava. Così io e un gruppo di amici decidemmo di arruolarci alla caserma più vicina". 

C'è anche chi scelse la Resistenza. Ha mai avuto scontri con i partigiani?

Sì, una volta ci avevano fatto una imboscata a Roccapietra. Eravamo in 30 uomini e siamo rimasti imbottigliati tra due colline e la notte abbiamo risposto al fuoco. Ho sparato nel buoio, alle fiammate che vedevo partire e spero di non aver preso nessuno perché sono contrario a uccidere, non è nella mia natura. Con il megafono i partigiani ci intimavano la resa,  dicevano che ci legato le budella al collo e non era una bella prospettiva. Alla mattina, senza più munizioni, uno di noi, a un certo punto, ha detto: mi sono rimasti 4 colpi nella pistola, il primo me lo sparo io e gli altri voi. Lui aveva già l'arma alla tempia quando abbiamo sentito delle cannonate, colpi in partenza e non in arrivo, e abbiamo capito che stavano arrivando i rinforzi. Così ci siamo salvati". 

Dopo la resa come si è comportato?

"Mi sono consegnato agli inglesi, perché i partigiani giravano in macchina per uccidere i fascisti. Sono stato nel campo di concentramento di Cesenatico. Era solo un terreno arato, senza tende, senza quasi nulla. Sono diventato amico con un ufficiale italo-inglese e ricordo che una sera, siccome c’era freddo, a un certo punto hanno chiamato il mio nome: 'Tenente Graziadei. Tenente Graziadei'. Ho pensato mi volessero fucilare, invece da una cammionetta mi lanciarono un cappotto militare italiano, con una pelliccia dentro. Erano i vestiti che sarebbero dovuti  andare ai nostri soldati in Russia. Poi, quando ho saputo di dover essere deportato in Africa ai lavori forzati ho deciso di scappare". 

Su questo periodo lei ha scritto anche un libro, in collaborazione con Pino De Rosa. 

Sì, il titolo nasce da un interrogatorio prorpio nel campo di comncentramento. Mi chiesero: lei da quando è fascista? Da quando sono nato, risposi, sono del ’25. E poi ancora: fino a quando è stato in servizio? E in quel momento mi è sembrato normale dirgli: fino all'ultimo giorno, all'ultima ora e all'ultimo minuto. Che poi è il titolo del libro". 

Ci sono alcuni personaggi noti, come Giorgio Albertazzi o Dario Fo che, intervistati in merito a quel periodo, hanno detto di essere stati ingannati con false promesse per aderire alla Repubblica sociale. E' così?

"Neanche per idea. Albertazzi era stato accusato di aver comandato un plotone di esecuzione e io ho sentito dire che lui ha affermato in seguito: 'Lo farei ancora'. L’altro, invece, era un buffone già allora. Dario Fo era un paracadutista, poi però ha cambiato gabbana subito e amen. Io sono scappato, sono arrivato a Ferrara, a casa, ho preso la bicicletta da corsa e con quella ho eprcorso 1300 chilometri a pedale fino in Sicilia, dove c’era mia moglie sfollata". 

E com'è stato per lei il dopoguerra?

“Bruttissimo, perché avevo delle conoscenze per potermi ricostruire una vita, per lavorare. Per sempio in un calzaturificio mi avevano promesso l’assunzione ma quando mi sono presentato le maestranze avevano saputo che avevo fatto parte della Repubblica sociale e si erano messe tutte in sciopero. Morale: il titolare è stato costretto a non assumermi. E così ho girovagato un po’ in cerca di un posto, che ho trovato in Sicilia, lavorando come magazziniere di bottoni, poi come commesso in un negozio di abbigliamento e quel mestiere mi ha portato a Piacenza sempre in un negozio di vestiti". 

Ha qualche rimpianto?

Se potessi tornare indietro, visti i risultati e le conseguenze, non avrei ripetuto l’esperienza della Repubblica sociale. Ma era la guerra stessa un errore. E' la peste dell’umanità. Se guardiamo indietro nei secoli, così come vediamo oggi in tv, i conflitti fanno nascere odio e sono una macelleria. Ammazzare una persona, non fa proprio parte della mia natura. Quello che ho fatto, insieme a tanti altri, è stato un gesto di ribellione al re e non pensavo che fosse così brutto il seguito". 

Il 25 aprile, cosa rappresenta per lei?

La fine della guerra, della macelleria. Anche noi in Italia, però abbiamo avuto tanti morti con i bombardamenti anglo-americani. Poi, come se niente fosse, li abbiamo accolti a braccia aperte. Era un sentimento dovuto al fatto che la guerra era finita, però non è che meritassero tutto questo affetto, perché di morti ne hanno fatti tanti anche loro". 

Crede nella democrazia?

"Oggi vedo un gran casino. Si stava meglio quando si stava peggio, secondo me. Prima della guerra non c’era tutto questo odio, poi mi ricordo un’Italia pulita. Adesso Roma, Napoli, gioielli dell’Italia, sono piene di spazzatura. Chi arriva dall’estero non ha un buon biglietto da visita". 

Come vede oggi la figura di Mussolini? Statista, dittatore?

Non possiamo paragonarlo a Hitler o Stalin, che erano simili. Mussolini a un certo punto è forse stato trascinato dalla situazione. Ed era meglio che riuscisse a starne fuori.

Come considerava i partigiani?

"Allora ci vedevamo come fratelli contro fratelli, un aspetto che non sopportato. Ricordo che l’ordine del generale Graziani del richiamo alle armi aveva trovato quasi tutti i giovani  contrari, perché in quel momento, nel punto peggiore della guerra, portare qualcuno a fare il militare era difficile e ha solo rafforzato i gruppi partigiani, molti giovani da quel momento sono scappati in montagna". 

Insomma, nonostante qualche conflitto, non le è mai capitato di uccidere?

"Partigiani ne ho beccati parecchi, ma li ho lasciati scappare tutti. Facevamo delle pattuglie, sulle montagne di Como. Una volta siamo entrati in una villa e un giovane trafelato che correva mi è caduto tra le braccia. Gli chiedo i documenti, era renitente alla leva. Ho chiuso la carta d’identità e l’ho lasciato andare. Tre donne, la mamma e le sorelle, vista la scena, ci hanno invitato ad entrare a bere un bicchierino. Alla fine, dopo una chiacchierata, una delle ragazze mi ha allungato un foglietto: un assegno con una bella cifra, forse per ringraziarmi di aver lasciato andare il figlio. Ma l’ho rifiutato, perché non eravamo quel genere di persone". 

Ancora oggi, dopo tanto tempo, c’è una storia, come la sua, che non si vorrebbe ricordare. Secondo lei è giusto comunque ricordarla?

"Si, perché non eravamo spietati, almeno noi, come dicono. I partigiani, una volta, ci hanno fatto cadere i fili dell’alta tensione al nostro passaggio. Fortunatamente il pilota ha avuto la prontezza, a Crevalcore, di sterzare all’ultimo momento e ci siamo salvati. Una volta scesi, una mitragliatrice dal campanile ha cominciato a spararci. Poi, passata la notte, è arrivato il battaglione ed è andato in cerca di partigiani. A un certo punto ho visto il comandante Zuccari intimare un mio amico di sparare a un partigiano catturato. Lui, incerto, non voleva ma il generale lo prendeva a calci nel sedere. Così gli ha sparato. L’ho incontrato anni dopo, lavorava in banca, ma non è più stato lui, era rimasto sconvolto". 

Se avesse davanti un partigiano oggi sarebbe pronto a stringergli la mano?

Certo, perché allora furono scelte individuali. Ne ho conosciuti diversi, sia prima che dopo, e siamo sempre rimasti legati. 

Secondo lei ha ancora senso di parlare di fascisti e comunisti? 

No, sono il passato. Che, come tanti avvenimenti storici, hanno lasciato il segno. Oggi il mondo è cambiato, abbiamo a che fare con l’Isis. Abbiamo visto che hanno sventato un attentato al Papa. Il mondo cammina, cambiano le situazioni e le idee. Purtroppo mi sono accorto, dopo tanto tempo, che non esiste l’umanità nel vero senso della parola. C’è chi è umano e chi no. Ma questo anche senza ideologie, nella vita di tutti i giorni"