“Fin da subito ci siamo accorti che, sentendo le telefonate, né l’imputato né la sorella stavano cercando il padre scomparso. Dal tenore delle conversazioni non emergeva alcuna agitazione”. Le contraddizioni dell’imputato Adriano Casella che emersero subito fin dalla denuncia di scomparsa del padre; una lunga sequela di intercettazioni passate al setaccio; gli interrogatori incalzanti dei carabinieri fino al crollo; e infine il ritrovamento del cadavere di Francesco Casella. E’ stata una deposizione chiave quella del maresciallo Camillo Calì, comandante del Nucleo operativo e Radiomobile di Fiorenzuola, nel corso della seconda udienza del processo in Corte d’assise per l’omicidio di Sariano di Gropparello in cui fu ucciso Francesco Casella. Imputato il figlio Adriano, 39 anni.
Davanti alla corte sono sfilati i carabinieri che hanno eseguito le indagini, dai militari della stazione di Gropparello con il comandante di stazione Vito Belcore, a quelli del Nucleo operativo di Fiorenzuola. Calì ha ripercorso tutte le fasi delle indagini fin dalla denuncia di scomparsa del padre presentata dal figlio. “Capii subito che c’erano delle contraddizioni nel suo racconto” ha spiegato il sottufficiale alla corte e ai pubblici ministeri Ornella Chicca e Antonio Colonna. Adriano e la sorella Isabella furono interrogati più volte in pochi giorni e sottoposti a intercettazioni telefoniche e ambientali (installato un gps sulla Polo i uso a Adriano), fino a quando l’imputato crollò e ammise di aver ucciso il padre. Fu poi Casella stesso ad accompagnare gli inquirenti sul luogo del ritrovamento del cadavere, un bosco vicino a San Michele, sui monti tra Gropperello e Prato Barbieri (a circa 29 chilometri. In aula, quando poi è stato ascoltato il carabiniere Murgia (che eseguì il sopralluogo) sono state mostrate a video anche le foto del cadavere sfigurato dal colpo con la pistola per ammazzare gli animali. Sullo sfondo è emersa la figura di Suada Zayfiri, la donna albanese di cui si era invaghito Adriano Casella e che lo avrebbe indotto ad uccidere il padre per soldi. Una vicenda che – è emerso – si sarebbe poi intrecciata con un altro delitto, quello dell’assassinio davanti al Baraonda. Si scoprì infatti che Suada era a capo di una gang d’albanesi dedita allo sfruttamento della prostituzione che si contendeva il controllo del territorio con un’altra banda di connazionali. Con lei il marito Mersin Uku, l’uomo accusato di aver sparato e ucciso il connazionale alla Lupa.