“Tragedia Pertite simbolo evidente della mancanza di regole nel lavoro”

Si è celebrata stamattina venerdì 8 agosto alle 10.30 nel cortile di Palazzo Gotico, la cerimonia di commemorazione delle vittime della Pertite, nel 74° anniversario della tragica esplosione che causò la morte di 47 persone e il ferimento di altre 500.  A rappresentare l’Amministrazione comunale c’era l’assessore Luigi Rabuffi, al cui discorso istituzionale è seguito, da parte del cappellano militare dell’Aeronautica don Luigi Marchesi, la benedizione della corona d’alloro e degli omaggi in onore dei Caduti, nonché la deposizione di fiori da parte del presidente provinciale Anmil Giovanni Ferrari. 
Nell’occasione, è stato reso il tributo anche alle vittime dell’incidente che avvenne allo stabilimento della Pertite nel settembre del 1928, quando un’esplosione provocò 13 morti i cui nomi, ora, sono incisi sulla nuova targa collocata dall’Amministrazione comunale nel sacrario sotto le arcate di Palazzo Gotico, in piazzetta Pescheria. Nello stesso spazio è stata apposta, a cura della sezione piacentina dell’omonima associazione, una nuova lapide in onore delle vittime civili di guerra. 

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Questo il discorso pronunciato dall’assessore Rabuffi.

Nel giorno in cui il Paese celebra il sacrificio del lavoro italiano nel mondo, in memoria dei connazionali morti nella miniera belga di Marcinelle, la nostra comunità si raccoglie commossa nel ricordo delle donne e degli uomini che l’8 agosto di 74 anni fa persero la vita nella fabbrica di caricamento proiettili della Pertite. Nel rendere il proprio tributo alle 47 vittime di quella tragica esplosione, che causò oltre 500 feriti, Piacenza estende il proprio abbraccio anche ai familiari dei 13 operai uccisi nello scoppio che devastò lo stabilimento di via Emilia Pavese il 27 settembre del 1928, provocando lesioni gravi ad altri tre addetti e, nel conseguente crollo della portineria, ferite più lievi a due donne e un neonato.

Nel loro nome, la Pertite resta per noi tutti il simbolo vivido e dolente di cosa significhi la mancata osservanza delle regole che dovrebbero proteggere chi svolge il proprio mestiere, tutelando la dignità delle mansioni più dure e pericolose, garantendo il rispetto per la fatica quotidiana di chi – come recita la lapide di fronte alla quale, anno dopo anno, ci ritroviamo – muore in tuta da lavoro, come in trincea. Perché in quel che accadde alle 14.42 dell’8 agosto 1940, quando due scoppi fulminei e consecutivi sgretolarono il ventre della grande fabbrica alle porte della città, la questione della sicurezza si intrecciava in modo inestricabile con il dramma della guerra che, di lì a poco, avrebbe travolto e spazzato via l’intimità delle famiglie, la quotidianità dei luoghi pubblici e privati, il brulicare operoso dei centri produttivi.

Le cronache dell’epoca oscurarono la vicenda e non fu possibile, purtroppo, attribuire con chiarezza responsabilità e colpe per quelle esistenze strappate ai loro affetti più cari, il cui cammino era stato segnato da un incidente di proporzioni sconvolgenti o – non è mai stato chiarito – da un attentato legato alla violenza strisciante del conflitto che incombeva. Diviene ancor più significativo, allora, il fatto che accanto alla storica targa commemorativa della tragedia della Pertite e a quella nuova che l’Amministrazione comunale ha voluto apporre per non dimenticare l’incidente di 12 anni prima, nel Sacrario dedicato ai Caduti sia oggi collocata una lapide per le vittime civili di guerra, grazie alla sensibilità dell’omonima associazione che colgo l’occasione per ringraziare.

C’è infatti, in questo accostamento, la stessa assunzione di consapevolezza, la stessa determinazione nell’adempiere a uno dei doveri civili e morali più forti che spettano alle istituzioni e alla politica: la missione di non disperdere il passato, coltivando la memoria non come eredità da custodire in silenzio o nel buio di un archivio, ma come testimonianza alla luce del sole, come sprone che ci spinga a cercare sempre la verità e la giustizia, come strumento capace di far vibrare le corde delle nostre coscienze. E’ l’esortazione a non smettere mai di indignarsi di fronte agli abusi e alla violazione dei diritti fondamentali della persona, che rende univoco, oggi, il senso della nostra presenza per onorare il ricordo di chi non c’è più. Delle vittime del lavoro come delle vittime di guerra.

I nomi e le date incisi nel marmo, biografie concise eppure così esaurienti nella loro essenzialità, ci chiedono di non dimenticare. E lo fanno, a dispetto del tempo che è trascorso, con un’urgenza che non ci permette di restare indifferenti. Perché quelle mani stanche eppure forti, ruvide e oneste, che lungo la catena di montaggio della Pertite costruivano strumenti di morte, erano in realtà espressione d’amore: per i figli da mantenere, crescere e far studiare, per un’idea del lavoro che – anche quando non c’era altra scelta, anche nelle condizioni più difficili e nel contesto più fatiscente – era dedizione, era rettitudine, era la volontà di guadagnarsi il pane come meglio si poteva riuscire.

E’ il filo rosso che li lega, donne e uomini inghiottiti dall’instabilità di quella polveriera, agli addetti morti nella fabbrica pirotecnica in provincia de L’Aquila poche settimane fa, come agli operai della Thyssen-Krupp o ai lavoratori dell’Ilva, del Petrolchimico di Marghera. Ma anche a tutte quelle persone – e spesso, le cronache da Gaza ce lo hanno ricordato tristemente in questi giorni, si tratta di bambini – che inermi e indifese sotto un cielo di bombe e una terra di macerie, si definiscono “casualties”, con una tragica corrispondenza lessicale tra le vittime civili di guerra e la casualità del destino.

No, è questo che non possiamo accettare, né di fronte alle statistiche relative a quelle che qualcuno si ostina ancora a chiamare “morti bianche”, né nei bollettini di guerra: non è mai una fatalità, quando qualcuno muore in queste circostanze. Alla base, c’è sempre una scelta precisa: quella di non perseguire la pace, come quella di risparmiare sulla sostituzione di un estintore o di un ingranaggio difettoso. Ogni giorno, in Italia, ci sono 3 o 4 lavoratori che non tornano più a casa. Come Dario Testani, geometra, che a 31 anni nel maggio scorso è morto scavando a mani nude in una buca di sabbia, nel vano tentativo di salvare i due colleghi operai che era già stati seppelliti in un cantiere della stazione Aurelia. E voglio citare anche tutti coloro che nelle zone della camorra, come a Rosarno, Castelvolturno e Casal di Principe, vengono assoldati per pochi euro al giorno per i lavori più umili.

Il significato della Pertite e la storia delle sue vittime restano ancora oggi un monito, a tanti anni di distanza, per ricordarci che lo sfruttamento, il lavoro nero, la precarietà dei diritti fondamentali sono piaghe e ferite che stentano a rimarginarsi.

Grazie.