Sono il monumento simbolo di Piacenza, quello attraverso il quale si fa promozione territoriale. La silhouette di uno di loro è stata anche logo dell’ Adunata Alpina che la nostra città ha ospitato lo scorso anno.
I cavalli del Mochi sono stati raccontati attraverso un libro di Maurizio Cavalloni, Mario Di Stefano e Benito Dodi, presentato nel pomeriggio di oggi presso la Sala Panini a Palazzo Galli, sede della Banca di Piacenza.
Alla presentazione del volume erano presenti oltre agli autori, il sindaco Paolo Dosi, l’ ex sindaco Stefano Pareti, sotto il cui mandato vennero affidati i lavori di uno dei restauri che hanno interessato le statue, e naturalmente a fare gli onori di casa l’ Ing. Luciano Gobbi, presidente della Banca di Piacenza.
Con uno degli autori, l’ architetto Benito Dodi, abbiamo parlato del libro che si inserisce all’ interno della collana “Esercizidimemoria” di cui costituisce il terzo volume. Il primo era stato dedicato all’ isolotto Maggi e al Lido di Piacenza, il secondo all’ edificio del liceo Gioia e questo ai due cavalli del Mochi che dagli inizi del ‘600 – come scrive Emilio Malchiodi – “vigilano” sulla piazza principale della città.
La storia delle due statue è naturalmente legata in maniera indissolubile con quella della città, tra l’ altro unica al mondo a dedicare una piazza ai cavalli e non ai cavalieri: si sarebbe infatti potuta chiamare piazza Farnese ma probabilmente questo nome non sarebbe stato così evocativo.
Le due opere corsero il rischio di andare via dalla piazza, quando Don Carlo di Borbone lasciò Piacenza, e di essere trasferite a Napoli nel 1735. Saranno davvero traslocate nell’ aprile del 1943 a Rivalta, al fine di essere preservati dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Il libro racconta le vicende più “recenti”, delle due statue equestri attraverso le immagini del fondo fotografico Croce e ad altre immagini provenienti dall’ archivio Manzotti e dalla collezione di Maurizio Cavalloni.
C’è anche una bella analisi fotografica di Elena Antonini che nella sezione finale del libro analizza “al microscopio” le due statue equestri, utilizzando immagini dettagliate, fotografando particolari nascosti o che passano inosservati guardando le opere da lontano, giocando con la luce e utilizzando i nuovi linguaggi della fotografia.
Un capitolo dinamico, moderno, ma molto suggestivo che, come dice la stessa Antonini, “attraverso lo scorcio, il dettaglio, colpisce su aspetti dell’ opera che non erano mai stati presi in considerazione”.