Anche quest'anno, per il settimo anno consecutivo, Piacenza si trasformerà nella capitale del diritto a livello nazionale. Partecipazione ed Esclusione è il tema che animerà i dibattiti e i momenti di incontro e approfondimento di questo settimo Festival del Diritto, come sempre a cura della casa editrice Laterza, del comitato presieduto dalla professoressa Anna Maria Fellegara, del curatore scientifico Stefano Rodotà e patrocinato dal Comune con la collaborazione di vari enti e istituzioni del territorio.
Da oggi sino al 30 maggio si apre il periodo per la presentazione di proposte e contenuti. “Chiediamo un contribuito non tanto di singoli che abbiano qualcosa da dire ma di associazioni, organizzazioni, enti e movimenti – ha spiegato la Fellegare nel corso di una conferenza stampa in Comune alla presenza del sindaco Paolo Dosi – Contenuti che siano attinenti anche declinando in vari modi il tema principale che è Partecipazione ed Esclusione».
Siamo in periodo di crisi, si sa, e l’argomento è stato toccato anche dagli organizzatori. «La spending review riguarda anche il Festival – ha sottolineato ancora Anna Maria Fellegara – Senza penalizzare la qualità dell'offerta, stiamo tentando di risparmiare». In altre parole i progetti che verranno presentati dovranno essere autofinanziati; il Comune ci mette l’organizzazione comprensiva di copertura mediatica, allestimenti, location (in collaborazione con i vari enti che partecipano come la Banca di Piacenza e la Fondazione), macchina organizzativa, ma i progetti proposti devono vivere di vita propria.
«L'hanno scorso abbiamo avuto tante richieste – ci ha tenuto a precisare la professoressa Fellegara – vedremo quest'anno. Siamo stretti nei tre giorni di manifestazione e tenteremo, nei tempi ristretti, di rispettare anche il criterio di rotazione dando visibilità a chi lo scorso anno non ne ha avuta tanta».
E ancora: «Per lo scorso anno siamo stati davvero soddisfatti delle proposte arrivate lo scorso anno. Anche nel 2014 il programma sarà unitario, sia quello principale sia quello partecipato saranno presentati e proposti come un unico vasto programma senza distinzioni. Il comitato si prenderà la responsabilità di individuare orari e location».
La Fellegara ha poi concluso con una sottolineatura: «Il festival è una ricchezza fondamentale per la nostra città, un vero e proprio patrimonio. Diventa un elemento di fertilizzazione di cui la nostra città non può fare a meno. Dobbiamo avere la consapevolezza di questo valore».
LA PARTECIPAZIONE PER IL DIRETTORE SCIENTIFICO STEFANO RODOTA'
"Partecipazione e autogoverno sono le due promesse fondamentali della democrazia moderna. Con la modernità si compie infatti il passaggio da un modello di società tradizionale, fondato su un principio di autorità verticale, a uno post-tradizionale e pluralista, basato sulla centralità del soggetto e dei suoi diritti: l’autorità dovrà essere quindi costruita dal basso, così come lo stesso ordinamento giuridico sarà il frutto della volontà dei consociati e dovrà essere in grado di rispondere ai loro bisogni, alle loro istanze di riconoscimento. Questa promessa di partecipazione incide profondamente sul modo di concepire il diritto e sulle sue concrete funzioni. Soprattutto con lo Stato costituzionale di diritto, la democrazia è diventata una forma di legittimazione complessiva dell’ordine, che non si riduce al momento elettorale: l’inclusione attraverso la garanzia dei diritti sociali, il libero associazionismo, la riorganizzazione degli apparati statali secondo principi antiautoritari, la fioritura di nuovi diritti civili hanno allargato e arricchito la nozione di cittadinanza. Partecipare significa essere e sentirsi parte di una comunità aperta, sapere di contare nei processi attraverso cui si prendono le decisioni, poter controllare e mettere in discussione l’esercizio del potere: insomma esercitare una cittadinanza attiva. Addirittura, il modello “ideale” della democrazia moderna prevede che ogni cittadino, in virtù della sua partecipazione alle decisioni e alla legittimazione dell’ordine politico, dia leggi a se stesso e, obbedendo alle norme, obbedisca a sé. Naturalmente, non ci si può fermare a queste pur nobili indicazioni normative, ma occorre anche uno sguardo realistico: sia rispetto ai limiti oggettivi che questo progetto di società inevitabilmente incontra, sia rispetto alle tendenze regressive che negli ultimi decenni si sono affermate. Pensare che autogoverno possa significare abolizione della distinzione governanti-governati è un’illusione, così come credere che delle classi dirigenti si possa fare a meno (semmai il problema è costituito dalla loro qualità, dai criteri di selezione e apertura); inoltre, gli ordinamenti giuridici e i sistemi politici hanno bisogno non solo di partecipazione, ma anche di efficienza. Tuttavia, sarebbe ingannevole pensare che un recupero di autorevolezza ed efficacia delle istituzioni possa passare attraverso una riduzione della discussione, del coinvolgimento della cittadinanza, della rappresentanza effettiva. Credere di risolvere i problemi del tempo presente, che sembrano prefigurare un possibile divorzio tra capitalismo e democrazia e una drammatica crisi di legittimità di quest’ultima, attraverso una strategia riduzionista, tornando a una forma di semplificazione autoritaria della complessità, è non solo pericoloso, ma anche perdente. Proprio se si vuole realizzare politiche dallo sguardo lungo, occorre invece mobilitare energie, spiegare e convincere, coinvolgere nelle decisioni e nella loro messa in opera, gettare ponti verso la società e i suoi movimenti, non avendo paura di mettere in campo idee ambiziose, socialmente avanzate, in un’ottica di pedagogia reciproca tra istituzioni e cittadini. Oggi il bisogno di partecipazione sta trovando sempre più ostacoli, sia nelle istituzioni pubbliche statali, sia in quelle europee, mentre i poteri economici globali, irresponsabili democraticamente, determinano i destini di intere società. Tendenze oligarchiche e tecnocratiche tornano a riaffermarsi, suscitando la sensazione che i frequenti appelli alla coesione sociale e alla ricostruzione di un legame tra istituzioni e cittadini siano operazioni retoriche, dietro cui si nascondono dinamiche neoautoritarie o comunque una notevole diffidenza rispetto al dissenso e alla istanze critiche dei cittadini. Questo bisogno di prendere parola, di essere parte attiva, serba certamente delle ambivalenze: nella società della comunicazione, è esposto potentemente all’influenza dei media, che non sono solo fonte di informazione, ma alimentano conformismo e consenso facile; inoltre, il carattere sempre più liquido e individualizzato delle società contemporanee, che la tecnologia amplifica, rende difficile assumere impegni duraturi, ponderati, alimentando una sorta di narcisismo di massa. E tuttavia, nel rifiuto della delega, nel volersi esprimere in prima persona, c’è anche la richiesta di una nuova politica del riconoscimento. Una richiesta cui le istituzioni debbono trovare il modo di corrispondere, anche attraverso innovazioni che arricchiscano e rigenerino la rappresentanza (ad esempio rafforzando l’istituto delle leggi di iniziativa popolare, prevedendo la possibilità di referendum propositivi in grado di incidere sull’agenda politica, utilizzando le potenzialità offerte dalla rete, con regole precise). Nella partecipazione c’è anche l’idea di un uso sociale del diritto che ne consenta l’appropriazione dal basso, ritagliato sulle vite incarnate delle persone, e che non ne neutralizzi a priori l’energia positiva, anche se talvolta conflittuale. Ci sono esperienze ed elaborazioni in merito alla democrazia deliberativa e partecipativa che meritano di essere approfondite e valorizzate (sui bilanci, sulle spese sociali, sulla tutela dell’ambiente nei diversi territori, sull’uso delle risorse e sulla tutela dei beni fondamentali anche rispetto alle generazioni future ecc.). Senza contrapporre la democrazia diretta a quella rappresentativa, senza semplificazioni fuorvianti, ma anche senza chiusure aprioristiche e conservatrici. Certo, occorre un orientamento: e questo è dato dall’antropologia dell’homo dignus, da quei diritti fondamentali – sempre più abbandonati dalla politica – che rappresentano la possibilità concreta di un ordine partecipato. Solo una rinnovata politica costituzionale dei diritti può rigenerare lo Stato sociale democratico e tornare a dare una prospettiva all’Europa che ha smarrito se stessa. Infatti, l’esclusione è l’opposto della partecipazione. Senza una politica dell’inclusione – da un punto di vista sia materiale sia simbolico – non sono soddisfatte le condizioni della cittadinanza democratica. Naturalmente, l’inclusione deve essere il più possibile larga, universalistica. L’opposto delle cittadinanze neocensitarie, o addirittura su base etnica, che la paura e la rabbia indotte dalla crisi e dal fallimento delle politiche d’austerità rischiano di produrre. Partecipazione significa anche trasparenza delle istituzioni e dell’attività amministrativa, ripudio degli arcani imperii. Le opinioni pubbliche sono diventate sensibili al tema, se non altro per il fatto che le nuove tecnologie rendono sempre più difficile una politica del segreto su scala globale, grazie alla diffusione orizzontale e incontrollabile di informazioni, soprattutto grazie al web. La scienza giuridica ha elaborato con il costituzionalismo strumenti significativi per garantire trasparenza e rispetto dei limiti nell’esercizio del potere. Ma le nuove forme del segreto e dell’arbitrio chiedono una riflessione all’altezza delle sfide di un mondo profondamente interconnesso, nel quale le ragioni della geoeconomia, oltre che quelle tradizionali della geopolitica, condizionano le scelte e gli assetti di potere operando spesso nel retroscena (come dimostrano i recenti casi di spionaggio e violazione della privacy su scala internazionale, anche tra Paesi alleati). Le cause dell’esclusione sono molteplici, così come gli ostacoli alla partecipazione. Ma ciò vuol dire che certamente non mancano i terreni sui quali una politica del diritto volta a favorire inclusione e partecipazione potrebbe esercitarsi: i luoghi di lavoro, dove il sindacato ha perso rappresentatività e le innovazioni normative sembrano rivelare l’intento di neutralizzare se non impedire un’effettiva partecipazione dei lavoratori; i luoghi della politica istituzionale, dove si decidono indirizzi di governo, si regolano interessi, si distribuiscono risorse: in essi il peso della rappresentanza generale e del controllo democratico è deperito a favore di quello delle lobbies, delle corporazioni, dei poteri opachi (e questo è uno dei fattori più gravi di inquinamento della vita pubblica italiana); i luoghi dell’impegno pubblico informale, dal volontariato alle battaglie per la tutela dei beni comuni: esperienze e temi ricchi di potenzialità nel senso di un nuovo costituzionalismo che punti sulla qualità della vita e sulla riconversione ecologica dell’economia, ma che si stenta ad assumere nell’agenda pubblica ufficiale; i luoghi della vita, dove i diritti di riconoscimento e di autodeterminazione delle persone aspettano, soprattutto nel nostro Paese, di trovare adeguata tutela generale (si pensi alla questione delle coppie di fatto e dei diritti di genere, ai temi bioetici come la fecondazione assistita e il testamento biologico). Nell’assenza della politica, è inevitabile che la giurisdizione, sulla base dei principi costituzionali, si trovi a svolgere un’opera di supplenza necessaria. Per assicurare un equilibrio tra gubernaculum e iurisdictio, occorre innanzitutto recuperare una forte cultura costituzionale e una capacità di iniziativa politica che non scansi le questioni controverse, né le usi ideologicamente, ma guardi con coraggio alle trasformazioni sociali e culturali in atto.
Il Festival del Diritto di Piacenza ha tra i suo tratti distintivi quello di aver posto da subito l’esperienza della partecipazione al centro del proprio progetto, prevedendo un ricco programma partecipato e il prezioso coinvolgimento di scuole e associazioni di volontariato. L’edizione 2014 conferma e rilancia questa impostazione, affrontando le tante sfaccettature, i problemi, le contraddizioni che caratterizzano due nozioni per certi aspetti opposte, in tensione tra di loro, eppure proprio per questo strettamente collegate. In questo nesso sta uno dei grandi nodi del nostro tempo. Siamo convinti che partecipare ed includere sia un progetto civile sul quale valga la pena impegnarsi. Perché questo accada occorre innanzitutto un dibattito appassionato, rigoroso e aperto, perché non ci sono scorciatoie, semplificazioni né deleghe in bianco che possano supplire all’esercizio del pensiero critico. Il diritto con la sua attività regolatrice fissa criteri di inclusione e di esclusione, fornendo o meno legittimazione sociale ai comportamenti. Un diritto partecipato non potrà che essere un diritto consapevolmente inclusivo. Senza ingenuità e fughe irrealistiche. Ma soprattutto senza cedere alla logica del bunker, che minacciosamente si è affacciata nelle nostre società inquiete".
Stefano Rodotà