Quattordici indagati, quattro diverse ordinanze di custodia cautelare, due morti ammazzati e una decina di ragazze sfruttate come prostitute, alcune delle quali picchiate, in un caso addirittura costrette a battere sui marciapiedi di Piacenza nonostante lo stato di gravidanza.
L'ultimo arresto in ordine di tempo è stato eseguito l'altro giorno a Tirana, in Albania, a carico di Ramadani Bujiar, che viene ritenuto il terzo complice dell'omicidio del Bar Baraonda nel quale venne ucciso a colpi di pistola un altro albanese, Sadik Hajderi, che si è poi scoperto a capo di un giro di prostituzione in contrasto con quello di cui facevano parte – secondo gli inquirenti – i due presunti killer e il complice appena arrestato. Si tratta di Mersin Uku, 29 anni, e di suo fratello Donard Uku, 21 anni, entrambi albanesi ed entrambi incensurati al momento dell'arresto.
Secondo gli inquirenti, altro esponente di spicco dell'organizzazione di cui facevano parte i due autori materiali dell'omicidio del Bar Baraonda di via Colombo, commesso la sera del 31 agosto 2013, era la donna, sempre albanese, moglie di uno dei due arrestati, coinvolta in un altro omicidio, quello di Sariano commesso circa un mese prima: Suada Zylyfi, 28 anni, aveva convinto Adriano Casella, 36 anni, piacentino di Sariano, a pagare il suo riscatto fingendosi schiava di aguzzini che la costringevano sul marciapiede. Quando Adriano Casella, carrozziere, aveva speso tutti i suoi soldi e non era più riuscito più a ottenerne dal padre, lo ha ucciso la sera del 7 luglio scorso sparandogli alla testa con una pistola a chiodi usata per la macellazione del bestiame. La donna albanese fintasi schiava non è stata indagata per un eventuale concorso nell'omicidio di Francesco Casella ma solo di circonvenzione di incapaci (essendo poi stata accertata l'incapacità di intendere e di volere dell'omicida).
Due omicidi apparentemente distinti e che solo grazie alla capacità degli vari investigatori scesi in campo e soprattutto grazie alla stretta collaborazione tra gli stessi pur appartenendo a istituzioni differenti (polizia e carabinieri), sono stati messi in collegamento fornendo così un quadro generale chiaro. Chiaro e inquietante, a dire il vero. Perché emerge come a Piacenza, per la prima volta dalla fine degli anni '90, si sta assistendo a un radicamento profondo del racket della prostituzione, sebbene mutato nelle dinamiche. Le donne hanno un ruolo di primo piano, ad esempio. E questo aspetto è senz'altro una novità, soprattutto nei giri di sfruttamento di prostitute slave; giri nei quali sono sempre stati gli uomini a farla da padroni, a differenza del racket africano e in particolare nigeriano dove da anni esistono figure come le cosiddette “maman” che rivestono il ruolo del classico “magnaccia” (spesso violente con le stesse connazionali). Tra gli slavi, e in particolare tra gli albanesi, questo aspetto non si era ancora visto.
Altro elemento di novità è la tecnologia: internet e strumenti di comunicazione diretta e gratuita come Skype o Whatsapp permettevano a figure cardine dell'organizzazione di gestire i traffici direttamente dall'Albania, accorciando le distanze e semplificando i contatti.
Certo è che di organizzazione vera e proprio si trattava. E questo l'ha sottolineato questa mattina il procuratore capo Salvatore Cappelleri che ha tenuto un'affollatissima conferenza stampa nel suo ufficio di via del Consiglio alla presenza dei magistrati che hanno coordinato i vari filoni di indagine (Antonio Colonna, Emilio Pisante e Ornella Chicca) e alla presenza dei rappresentanti di polizia e carabinieri che le indagini le hanno svolte sul campo.
Indagini che per un certo periodo hanno viaggiato su binari distinti ma che sono state svolte con precisione tale che quando si sono palesati i primi elementi comuni, il collegamento è stato immediato.
Sul fronte di Sariano di Gropparello indagavano i carabinieri del Nucleo operativo della Compagnia di Fiorenzuola al comando del capitano Emanuele Leuzzi, coordinati dal sostituto procuratore Ornella Chicca. E' nell'ambito di queste indagini che è emersa per la prima volta la figura della 28enne albanese di cui Adriano Casella, il 36enne poi reo confesso, si era invaghito e per la quale aveva speso tutti i soldi, suoi e di suo padre, credendo di aiutarla a lasciare il racket di cui era vittima; e del quale invece, come ha apertamente dichiarato il magistrato Chicca, era una leader indiscussa. A farle eco è stato il collega della procura Pisante che, citando il Tribunale del Riesame di Bologna che si è espresso di recente rigettando il ricorso dei legali della donna arrestata due settimane fa e al momento in carcere, ha parlato di lei come di una donna il cui ruolo all'interno dell'organizzazione criminale «era pari a quello che aveva il marito» prima essere arrestato.
E il marito, come si accennava, è Mersin Uku, uno dei due fratelli bloccati dai poliziotti della Mobile piacentina al termine di un'operazione lampo e provvidenziale mentre stavano per imbarcarsi a Malpensa su un volo per Tirana appena dopo aver commesso l'omicidio del Bar Baraonda di via Colombo a Piacenza.
«Non si sapeva assolutamente niente dei protagonisti di questo delitto» ha spiegato Pisante, il pm titolare dell'indagine sull'omicidio in questione. Tutti i protagonisti, vittima compresa, erano incensurati. Ma di certo operavano a Piacenza nel settore della prostituzione già da tempo. Ed è su questo aspetto che ha insistito il procuratore Cappelleri con il suo sostituto Colonna che si è occupato in particolar modo di ricostruire l'ambiente nel quale il delitto era maturato.
Un ambiente nel quale Piacenza era divisa in territori gestiti da due bande che per un po' hanno convissuto e che poi, quando una delle due ha superato i confini, si sono dichiarate guerra. Il motivo scatenante del delitto di via Colombo pare che sia stato una rapina ai danni di una lucciola della banda rivale.
In tale contesto gli uomini rivestivano un ruolo “parassitario”, come hanno precisato i magistrati: vivevano del denaro che arrivava dai marciapiedi su cui si prostituivano le varie ragazze; non tantissime, una decina, alcune picchiate e costrette con la forza a battere, altre più attive nell'organizzazione. Tant'è che ai vertici (i due fratelli, la moglie di uno dei due e l'ultimo arrestato a Tirana) la procura ha contestato il reato associativo che aggrava di parecchio le loro posizioni.
A ulteriore riprova che si trattasse di bande organizzate sul territorio, e senz'altro da non poco tempo, c'è anche la presenza di altri soggetti con ruoli marginali ma comunque di un certo peso. Una coppia di italiani residenti a Piacenza, ad esempio, originari di Mazara del Vallo, sono finiti in manette l'altro giorno per mano della Squadra mobile diretta da Salvatore Blasco (che ha eseguito 11 delle 14 misure cautelari emesse a vario titolo nell'ambito delle indagini collegate tra loro), con accuse distinte; più gravi per la donna (che a quanto pare si prostituiva e aveva un ruolo attivo nella banda, tant'è che si trova ora in carcere su disposizione del gip Elena Stoppini) e più lievi per il marito, già scarcerato.
Un contesto di criminalità vecchio stampo, dunque, ma più “aggressiva” e più sfuggente grazie alle nuove tecnologie e al ruolo sempre più importante delle donne all'interno delle varie gang. Un contesto nel quale, nel giro di pochi mesi, si sono registrati due morti ammazzati e vari episodi di violenza e nel quale giravano somme di denaro consistenti: quasi 10mila euro alla settimana solo di proventi della prostituzione. Un contesto che è potuto emergere solo grazie alla stretta collaborazione tra polizia, carabinieri e vari magistrati della Procura di Piacenza: «Un lavoro sinergico che dovrebbe servire d'esempio per il futuro» ha sottolineato, in chiusura, il procuratore Cappelleri.