Il Perdoni che non perdonava niente a nessuno. Ricordi del “giro di nera”

Ero in aereo quando Gianluca è morto. Il tempo di accendere il telefonino, di connettermi al mondo e mi è arrivata una botta che non avrei mai creduto di poter accusare tanto. Una botta in piena faccia, come un pugno nel dormiveglia. Eppure lo sapevo, lo sapevamo tutti noi colleghi, lo sapevano tutti a Piacenza che Gianluca Perdoni, il giornalista, era malato. Ed era stata quella la prima botta, lo scorso autunno: sapere di quella malattia che gli aveva preso le ossa e l'aveva piegato di dolore nel giro di poche settimane. Poi l'operazione, che nemmeno si pensava che potesse superare e che invece aveva superato perché la pellaccia ce l'aveva dura, Perdoni, pellaccia da cronista. Poi la degenza, con Silvia, la sua compagna di una vita, forte, positiva e onnipresente anche per filtrare e mediare le centinaia di amici che chiedevano, che si preoccupavano, che si facevano vivi. Poi, proprio quando si iniziava a sperare, altre brutte notizie, altre mazzate. Alla fine non ce l'ha fatta. Pazzesco, da non crederci. Era un ragazzo, Gianluca; giovane all'anagrafe, perché a 44 anni si è giovani, e ancora più giovane per tutto il resto, dal modo di vestire eccentrico, con l'arancione che spuntava ovunque, agli orologi strani; dai capelli lunghi alla barbetta rada che insieme a quel taglio particolare di occhi gli avevano fatto meritare il soprannome coniato da Giorgio Lambri, capocronista di Libertà: Gianluca Perdoni, per noi colleghi, era il Cinese. 

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Ed era terribile, il Cinese. Giusto di nome faceva Perdoni, perché nei fatti non perdonava niente a nessuno, nemmeno a sé stesso, come dovrebbe fare ogni giornalista che si rispetti. Ne aveva una per tutti, aveva un senso della notizia raro anche per chi fa questo mestiere da più tempo ed era in grado di sdrammatizzare anche la più drammatica delle situazioni. E di situazioni drammatiche ne abbiamo viste parecchie insieme. Primo arruolato nella squadra di Ippolito Negri, che nel 2000 stava mettendo insieme la redazione piacentina del Giorno di Milano, gli era stato affidato lo sport. Io l'ho raggiunto poco dopo. Ricordo come se fosse ieri la prima riunione ai tavoli di quello che all'epoca si chiamava ancora Balzer, oggi Barino, sotto ai finestroni del Comune. C'era Natasha Barbieri, che si occupava di cultura, c'era naturalmente Ippolito, il capo, e poi c'ero io, piazzato a occuparmi di cronaca nera e giudiziaria. Una squadra motivata e tosta di cui faceva parte anche un altro storico giornalista piacentino scomparso da due anni, mio padre, Sandro Pasquali, battitore libero, penna decisamente conosciuta in città e, forse non a caso, da subito grande estimatore di Perdoni: «Non ha paura di risultare antipatico, quel ragazzo. Mi piace» mi aveva detto qualche mese dopo averlo conosciuto. Una squadra, quella di Ippolito, che si è poi arricchita di giovani e promettenti professionisti come il buon Alan Patarga alla politica, poi firma del Foglio e oggi volto noto del Tg5, ed Elena Valdini, successivamente diventata autrice di libri. Era il maggio del 2000 quando è nata la squadra piacentina del Giorno e Gianluca l'ho conosciuto proprio in quell'occasione. A maggio sarebbero stati 14 anni. Da lì si è lavorato insieme per molto tempo, poi le nostre strade si sono divise (lui è rimato al Giorno, io sono andato altrove) ma si è sempre rimasti nello stesso "giro": il giro di nera. Anzi, da quando non lavoravamo più per la stessa testata siamo diventati più amici perché, di fatto, ci si vedeva in strada più spesso a occuparci delle stesse cose. 

Poi gli ultimi mesi, prima di questa stramaledetta malattia. Si parlava di progetti, di cose da fare insieme, di idee da mettere in pratica, di tv, di internet. Si parlava di futuro. E ora siamo qui con gli occhi sbarrati di fronte a questo 44enne che sembrava un ragazzino e che il futuro non ce l'ha più. Non quaggiù, almeno. 

C'è da ricordarlo bene, questo giornalista; c'è da tenere presente come si muoveva, come lavorava, come si poneva di fronte ai fatti. C'è da fare in modo che lo abbiano presente tutti quelli che si approcciano alla professione, perché Gianluca Perdoni, al di là di ogni retorica, al di là di ogni buonismo (che peraltro gli farebbe venire l'orticaria), era nato per fare questo mestiere e questo suo pallino, questa sua attitudine l'avevano spinto a non mollare anche quando le condizioni lavorative erano diventate più difficili, anche quando c'era da lavorare quasi gratis. Era ovunque perché – diceva – non c'è da perdere di vista la situazione, le dinamiche, non vanno persi i contatti: «Un giornalista deve sapere cosa accade nella sua città». E Gianluca lo sapeva bene. Lo sport era la sua passione, certo, era la sua vocazione professionale e il settore in cui si è specializzato, ma non era l'unico; conosceva i meccanismi della politica, sapeva leggere gli intrallazzi, gli piaceva l'economia, intravedeva – anche quando erano nell'ombra – certe dinamiche legate al potere e amava parlarne, discuterne con chi poteva capire e amava progettare inchieste e servizi. Ma c'è un aspetto, professionalmente parlando, per cui Perdoni spiccava: era uno dei pochi giornalisti piacentini in grado di approfondire seriamente una notizia. Qui le notizie di danno, si leggono e molto spesso si dimenticano. E' una caratteristica tutta piacentina. Perdoni tirava fuori fatti sepolti nella memoria e negli archivi ma che magari avevano un “seguito” di cui parlare, di cui scrivere; sapeva sviscerare vicende, non solo raccontare fatti. 

Mi mancherà molto, il Cinese. Mancherà a moltissime persone, certo, ma a me qui e ora preme ricordare il Gianluca che potrà mancare solo a una ristretta cerchia di cronisti che dalla fine degli anni '90 a ieri hanno condiviso con lui le storie belle e brutte di questa città strana, piena di personaggi da film che pochi notano e di vicende grottesche che quasi tutti dimenticano; di queste storie e di questi personaggi abbiamo chiacchierato, riso e scherzato nei bar di mattina durante i “giri” e nelle trattorie di sera davanti a caraffe di gutturnio sfuso (rigorosamente frizzante, come piace alla gente semplice) tirando fuori il lato più boccaccesco delle cose. C'era sempre qualcosa di cui ridere, per Gianluca. Anche nelle più truci storiacce di questa benedetta città. E per anni ci siamo trovati in pochi – soprattutto io, Ermanno Mariani e Gianluca Perdoni – a raccontarci, sghignazzando, tutto quello che non avremmo mai potuto scrivere.